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mercoledì 7 ottobre 2015

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

Dalla Nebbia - Felix Culpa

#PER CHI AMA: Black Progressive, Enslaved, Windir
'Felix Culpa' è il nuovo lavoro degli statunitensi Dalla Nebbia, che già avevamo avuto modo di apprezzare con il full length di debutto 'The Cusp of the Void' del 2013. I quattro loschi figuri del South Carolina tornano con una importante novità ossia la presenza al violino di Sareeta (Borknagar e Solefald tra gli altri) a donare un pizzico di magia in più al sound maledettamente oscuro del combo statunitense. Cosi dopo l'immancabile intro, ecco materializzarsi "Until the Rain Subsides", song che palesa quel filo di malinconia che contraddistingueva già la proposta dei nostri agli esordi e che oggi assume connotati ancor più forti, quando è proprio il violino di Sareeta a irrompere sul tappeto eretto dalle melodiche ma serrate ritmiche dei Dalla Nebbia. La voce di Zduhać si conferma velenosa e interseca i propri vagiti con quelli puliti (e più rari) di Yixja. Tuttavia, la cosa che più mi colpisce (e maggiormente ho apprezzato nel corso dei ripetuti ascolti dell'album) è la psichedelica matrice sonora che vede la band dell'East Coast miscelare il black con il progressive (in stile Enslaved) e l'avantgarde, mantenendo tuttavia inalterato il proprio estremismo sonico. Una proposta che vede irrobustirsi nella successiva "Abandoned Unto Sky" che ci affida una band decisamente più matura che in passato, il che si riflette anche in un più complicato approccio musicale. Con "Lament of Aokigahara" il sound dei nostri sprofonda nelle viscere di un black doom dalla vena funeral che mostra un suono nostalgico ma rarefatto, che va a nascondersi in anfratti ambient e arriva a sfociare nel devastante impatto di "The Banner of Defiance", dove il quartetto esprime tutta la frustrazione accumulata in questi due travagliati anni che hanno anticipato l'uscita di 'Felix Culpa'. Il brano segue uno strano cammino con suoni disarmonici ma sontuosi, talvolta difficili da decifrare, che tuttavia rappresentano il punto di forza del nuovo lavoro dei Dalla Nebbia. Sebbene non sia cosi facile avvicinarsi alla musicalità dell'act statunitense, a causa di una marcata complessità sonora, che basa le proprie fondamenta su una certa alternanza di atmosfere depressive e altre ritmiche infernali, il disco trova la sua summa in "Not Within the Stone", che vede la presenza alla chitarra, in qualità di guest, di Aort dei Code (il quale presterà i suoi servigi anche nella title track). Le chitarre confermano la propria vena schizofrenica anche in questo pezzo, stratificandosi su più livelli, rendendo la proposta dell'ensemble americano ancor più interessante e longeva in termini di ascolto. A questo aggiungete il violino di Sareeta, una certa imprevedibilità di fondo che mi ha evocato un che degli Oranssi Pazuzu e una struttura piuttosto ricercata, e forse sarete solo lontanamente in grado di assaporare gli umori che si celano e alternano nelle complesse note di questa song. Manca immediatezza non ve lo nascondo, i suoni non sono cosi facili da essere digeriti, intanto il disco prosegue con il funambolico refrain della title track che vorrei associare a dei coloratissimi fuochi artificiali che esplodono nel cielo, quando il gran finale garantisce la presenza di tutti gli esplosivi a illuminare a giorno l'oscurità della notte. I Dalla Nebbia analogamente utilizzano tutti gli orpelli strumentali, le chitarre, le tastiere, il programming techno, i violini, le screaming vocals che sono a loro disposizione e sfoderandoli tutti insieme, e finendo per ubriacarci tra le distorsioni elettriche ed elettrizzanti del loro sound. Sembra l'inizio di un deprimente film in bianco e nero degli anni '50, quello invece affidato alle note di "Paradise in Flames", con le chitarre che seguono l'overture di violino e tastiere, e richiamano il grande amore nordico del 4-piece verso i Windir, con un epico incedere che ondeggia nell'etere come il vento gelido del nord sferza minaccioso l'aria. Il brano per 2/3 strumentale, trova solo nel finale una maggiore efferatezza nei suoi toni con lo screaming di Zduhać a palesarsi nell'ennesimo cambio di passo di un disco che farà certamente la gioia degli amanti di sonorità estreme che ambiscono, con un malcelato interesse, a sperimentazioni soniche assai ricercate. Il disco placa il proprio flusso evocativo nel conclusivo interludio semi-acustico di "The Silent Transition" che conferma, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, la stralunata vena psicotica dei Dalla Nebbia. (Francesco Scarci)

(Razed Souls Productions - 2015)
Voto: 85

domenica 4 ottobre 2015

La Fantasima - S/t

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Folk metal
"La Fantasima è l’immagine, il cuore, il suono ed il desiderio che è parte dei silenzi e dei colori della natura Italica. Dalle sue notti, dai boschi, da sotto i suoi monti, tra le pagine di antiche leggende e nel tepore della luce dei fuochi, rendiamo omaggio alla nostra terra, raccontandola". Cosi i nostri descrivono la propria proposta nelle loro pagine. Da ammirare innanzitutto il lato isolazionista e underground del trio romano che licenzia in download gratuito il proprio lavoro senza troppa pubblicità. Le cinque tracce che compongono il disco sono ispirate alle bellezze della natura italica e solo a pensare quante di essa versano in situazioni disastrose o dimenticate, l'omonimo album ne diviene un'ottima colonna sonora, una reale fotografia di quanto in Italia si stia regredendo in tal materia. Il sound dei nostri ha la veste oscura e il passo rallentato del freddo funeral doom siberiano, prediligendo suoni puliti e d'atmosfera, molto cupi e riflessivi; i brani sono totalmente strumentali, rallentano i battiti cardiaci, risultano depressivi e notturni, pieni di pathos e malinconia. Mostrano una magia ancestrale, una capacità ipnotica e magnetica, una collocazione fuori dal tempo, tra armonici di chitarra e un basso carico di atmosfera, orgoglioso del suo sound anni '80, con una batteria minimal ad effetto psichedelico che li fa entrare di diritto nell'olimpo del drone/depressive/metal pur non sfoderando mai una chitarra distorta. In realtà l'insieme dei pezzi ha una forma di romanticismo decadente, quasi occulto che si avvicina al misticismo sonoro di Ion (vedi Duncan Patterson) in "Madre, Protègenos" e richiama le sospensioni temporali soventi nella musica dei Sigur Ros e il concetto mistico uomo/natura perfettamente espresso dagli Agalloch in 'The White', anche se poi qui il risultato definitivo è un ambient folk metal dalle caratteristiche schive e riservate. Da ascoltare almeno una volta nella vita per cercare di capire il significato della propria esistenza! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Roberto Alba

Lychgate - An Antidote for the Glass Pill
Mgla - Exercises in Futility
Lycia - A Line that Connects

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Francesco Scarci

Ketha - #!%16.7
Amorphis - Under the Red Cloud
Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

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Don Anelli

Mare Infinitum - Alien Monolith God
Symbolical - Collapse in Agony
Christian Mistress - To Your Death

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Mauro Catena

Algiers - S/T
Mark Lanegan - Houston Demo 2002
Yo La Tengo - Stuff Like That There

Interview with Ketha

Follow this link to know who is hiding beyond the name Ketha and their last incredible EP '#!%16.7' a crazy mix of death, math, alternative, jazz, avantgarde and cinematic visions:


sabato 3 ottobre 2015

Doomed - Wrath Monolith

#PER CHI AMA: Death/Doom
A Gennaio avevo recensito 'Our Ruin Silhouettes': l'instancabile sassone Pierre Laube, mastermind dei Doomed torna prontamente con un nuovo album pregno di sonorità doom/death metal. Se non conoscete il personaggio, Doomed è un progetto solista dove Pierre si occupa di scrivere i pezzi, suonarli ed arrangiarli, facendosi supportare da fidati compagni solo per le esibizioni live. 'Wrath Monolith' contiene sei tracce per un totale di cinquanta minuti ed è arrivato tra le mie mani in versione semplificata per gli addetti ai lavori, quindi non posso dire granché sul packaging. La grafica della copertina riprende gli album precedenti, con l'utilizzo del colore verde pallido e del nero con rappresentazioni stilizzate di demoni e paesaggi onirici con richiami alle religioni. Questo per dire che Doomed non si fa coinvolgere dalla frivolezza che spesso attanaglia il mondo della musica, ma vuole comunque trasmettere i sui pensieri e gli stati d'animo più profondi e ossessivi. Come anticipa il titolo, l'album vuole essere come un monolito, costruito e innalzato in onore dell'ira, il sentimento che probabilmente ha inspirato Doomed per la scrittura di questi sei brani. Il primo pezzo che ci accoglie dopo l'inserimento del cd nel lettore è "Paradoxon", una breve intro malinconica di pianoforte che lascia subito lo spazio per l'attacco pesante e lentissimo degli altri strumenti. Le protagoniste musicali sono le chitarre, distorte e ribassate per fare da tappeto sonoro ai brani e poi l'onnipresente chitarra solista che, come un navigato cantastorie, conduce l'ascoltatore attraverso le melodie che si intrecciano durante i dodici minuti abbondanti della canzone. Ottimi gli arrangiamenti che sanno tramutare le melodie tenebrose in riff meno ossessivi e che lasciano intravedere una luce in fondo al tunnel. A metà brano c'è un break che di fatto sancisce la rottura con la precedente parte, una sorta di atto secondo, dove la voce duetta tra sé e sé a suon di growl. La batteria si inserisce sempre in maniera impeccabile, utilizzando spesso una grancassa ossessiva aumentando il senso di oppressione che imperversa per tutta la traccia. Un brano che fa da biglietto da visita e mette subito a tacere qualunque dubbio sull'ipotesi che l'artista abbia voluto introdurre qualche novità rispetto ai precedenti lavori. "The Triumph - Spit" apre con il verso di un corvo che come uno psicopompo annuncia l'entrata dell'immaginario carrarmato devastante che stritolerà qualsiasi cosa con i suoi cingoli infernali. I riff di chitarra sono in pure stile death e sono semplicemente sopraffini, inoltre la leggera linea di tastiere arricchisce il brano con atmosfere eteree. La voce conduce, cosi come negli altri brani, con un fare iracondo e senza l'ombra di una qualsiasi pietà per l'oscena umanità che si dimena come zombie sulla superficie della terra. Un lontano coro si inserisce nel brano e poi altri intrecci si susseguono, sempre con massimo armonia e cura per l'attento ascoltatore che cercherà di cogliere le diverse sfumature inserite dal musicista. "I'm Climbing" è l'ultima tracce dell'album e conferma quanto detto precedentemente sulla composizione musicale. Il brano richiama le sonorità dei vecchi Katatonia e Pierre dà libero sfogo al suo cantato potente e autoritario, una sorta di oratore del nuovo millennio che cattura l'ascoltatore e lo incatena davanti a sé fino alla fine. Dopo circa tre minuti il brano muta completamente grazie all'assolo di chitarra che sembra arrivare da una dimensione lontana e che lascia spazio ad un vecchio pianoforte malinconico che chiude il cd facendo calare il sipario. In generale la composizione dei brani è sempre molto complessa, arrangiata in modo ineccepibile e il tutto è coronato da una cura chirurgica dei suoni. L'esperienza dei Doomed è palese grazie a lavori sempre di qualità, un doom mai banale che viene portato ad un livello altissimo e che può avvicinare anche le orecchie meno abituate a queste sonorità. L'inserimento di tastiere, linee vocali prog, suoni ambient e quant'altro alleggeriscono alcuni passaggi che sono oggettivamente sostenibili per un tempo limitato senza cadere nella depressione più nera. 'Wrath Monolith' raccoglie sei brani raccontati ed eseguiti attraverso diversi stati d'animo, con piglio epico da un musicista che merita di essere annoverato tra i più meritevoli degli anni duemila. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/doomedband

Maïeutiste - S/t

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Dopo ben otto anni di riflessione dal loro demo cd, i francesi Maïeutiste giungono al tanto agognato debut album. Risale infatti al 2007 'Socratic Black Metal', il primo vagito del sestetto di Saint-Etienne. Nel frattempo i nostri non si sono persi d'animo, hanno proseguito con la scrittura dei brani e hanno finalmente partorito questo self-titled di debutto, che l'onnipresente Les Acteurs de L’Ombre Productions ha messo sotto la propria ala protettrice. Undici claustrofobiche tracce che sanno più di una marcia funebre che altro sin dall'opener che delinea i tratti somatici di quest'oscura creatura. Non fatevi ingannare però perchè il mostro che si cela nell'antro della bestia, emergerà dalle viscere nella seconda "... In the Mirror" e si scatenerà col suo malefico vocalist. Il sestetto, che peraltro vanta tre chitarristi in formazione, ha il merito di cambiare registro più e più volte nel corso dei brani e se ci avevano impressionato per la ferocia introduttiva, sarà interessante anche sentire come il brano acquisisca un piglio più solenne ed epico col passare dei minuti. In "Reflect - Disappear" i nostri mutano radicalmente la propria proposta, risultando, passatemi il termine, più rock oriented, anche se poi la sgroppata black metal non la si nega a nessuno con i suoi classici blast beat impazziti. Bravi comunque a far coesistere più generi tutti insieme anche se nei momenti di furia black, non ci troviamo realmente nulla di innovativo fra le mani, che già non sia stato proposto in tutte le salse possibili. Tuttavia è assai apprezzabile lo sforzo di proporre un sound che vari dal black al doom, passando tra aperture gothiche o liturgico esoteriche come quelle che aprono "Purgatoire", un inquietante inno alle forze del male che si evolverà in un arpeggio conclusivo, bellissimo. È la fine del primo atto, "Eveil"; con "The Fall" si ritorna ad un primigenio black metal che scomoda facili paragoni con 'De Mysteriis Dom Sathanas' dei Mayhem, sia a livello ritmico che vocale, anche se un inebriante break acustico centrale scombina tutto quanto fin qui detto. Ma questo è decisamente il punto di forza dei Maïeutiste che riescono a scomporre e riconfigurare il proprio sound, plasmandolo a propria immagine e somiglianza a livello emozionale. L'arpeggio classicheggiante di "Absolution" conferma la transumanza dei generi su cui i nostri vanno continuamente a virare, prima che tutto muti ancora una volta in un pezzo che è più death oriented (chi ha citato gli Slayer?) soprattutto a livello degli infuocati assoli che riempiono questo brano e che spiazzano ancora una volta l'ascoltatore, prima di abbandonarsi in un cinematico break jazzistico. Tutto questo per dirvi che se i Maïeutiste ci hanno impiegato cinque anni per scrivere questo disco, forse era dovuto al fatto di non voler apparire scontati nella loro stralunata proposta musicale. Un grande plauso quindi ad un lavoro difficile ma che merita tutta la vostra attenzione. Con "The Eye of Maieutic Art" si ritorna ad un black dalle venature doom in una epica song di oltre nove minuti, che chiude il secondo capitolo, "Chute", e ci prepara alla terza parte del disco, "Elévation", aperta dalle visioni apocalittiche di "Lifeless Visions", ansiogena song funeral doom che mette ancora in mostra le proprietà tecnico esecutive dei nostri. Ma forse il bello deve ancora venire. "Death to Free Thinkers" è infatti un'altra traccia sperimentale aperta da una serie di percussioni (base portante di tutti gli oltre otto minuti del brano), delicate note di chitarra e un cantato epico da brividi. "Annonciation" rappresenta l'epilogo della terza parte, in 240 secondi che potevano star bene in uno qualsiasi dei dischi dei Pink Floyd. Attenzione perchè il disco riserva ancora gli 11 minuti di "Death to Socrates", un pezzo di black mid tempo che trova ancora il tempo e il modo di scuotere l'ascoltatore con i suoi sussulti. Che altro dire di un lavoro che mostra le innumerevoli sfaccettature di una band piena di risorse e interessanti idee? Speriamo solo di non dover aspettare altri 7 anni per sentir parlare dei Maïeutiste, rischierei di dimenticarmene il nome. Nel frattempo godiamoci questo incredibile debutto. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions- 2015)
Voto: 80

https://www.facebook.com/maieutisteofficial

giovedì 1 ottobre 2015

Dead Shed Jokers – S/t

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock, Queens of the Stone Age
Suonare come nessun altro, eppure risultare immediatamente familiari. Sarebbe probabilmente il sogno di buona parte delle band che popolano il pianeta, e ogni tanto qualcuno ci riesce. I Dead Shed Jokers sono una band strana, ci vuole tempo per metterli a fuoco, eppure non ci si riesce mai del tutto. Come osservare un dipinto in cui la prospettiva è leggermente ingannatoria, non ci si sente mai del tutto a proprio agio, solleticati da un leggero e indefinibile senso di disagio. I cinque ragazzi gallesi, al loro secondo album, propongono un hard rock che è sí debitore dei gloriosi '70s, quanto influenzato dal grunge o dai Queens Of The Stone Age. L’istrionico cantante Hywel Davies ha una voce pazzesca e uno stile a metà tra Robert Plant e Chris Cornell, ma con un’attitudine alla teatralità piú spiccata, cosa che rende davvero peculiari molti dei brani in scaletta. A sorreggere Davies ci pensano gli altri quattro (due chitarre, basso e batteria) e lo fanno come meglio non si potrebbe: riff granitici, una bella varietà ritmica e la capacità di costruire brani complessi e mai scontati, senza perdere un grammo in termini di energia. Il tutto è poi ben supportato da un suono sporco e per nulla patinato. Il mix che ne viene fuori ha un certo non so che di originale, qualcosa che non si riesce del tutto ad afferrare mentre si cerca di individuare tutti i riferimenti, che all’inizio sembravano evidenti. Dopo molto ascolti non sono ancora riuscito a capire bene di cosa si tratta, ma dev’essere nascosto nelle pieghe della voce e dalla personalità di Davies, che non si limita a cantare, peraltro benissimo, ma sembra sempre volerti raccontare una storia in modo molto serio, riuscendo quasi sempre a catturare la tua attenzione. Degli 8 brani, nessuno può essere considerato un riempitivo, e si viaggia dal rock dritto e tirato dell’opener “Dafydd’s Song” alle sfumature folk di “A Cautionary Tale”, ai riff irresistibili di “Memoirs of Mr Bryant’s” (scelta come singolo e della del quale vi invito caldamente a visionare il delirante e bellissimo video), fino al tiro pazzesco di “Rapture Riddles”, in un’incedere dance punk che non avrebbe sfigurato nel post-punk revival britannico di inizio millennio, tra Bloc Party e The Music. Si chiude poi con la ballata pianistica in stile glam “Exit Stage Left”. Disco sorprendente, che riesce a coniugare al presente il verbo del rock d’annata in un modo credibile e a suo modo originale. Forse non li troverete mai nelle liste delle next big thing di oltremanica, ma dopotutto, quante delle band citate in quelle liste vi ricordate oggi? I Dead Shed Jokers, invece, ci sono per restare. (Mauro Catena)

(Pity My Brain Records - 2015)
Voto: 75

martedì 29 settembre 2015

Apneica - Pulsazioni... Conversione

#PER CHI AMA: Post Metal/Death Doom
L'underground italiano c'è ma non si vede. Sebbene la scena sembri alquanto statica, vuoi per l'assenza di locali, vuoi perchè le poche case discografiche preferiscono puntare su band straniere, c'è ancora chi crede nelle realtà di casa nostra. Da sempre la My Kingdom Music (e ora la sua sottoetichetta Club Inferno Ent.) tiene le antenne alzate e oggi pubblica il secondo lavoro degli Apneica, un 4-track EP interamente cantato in italiano che propone un death doom di caratura internazionale che sembra fondersi con un genere alquanto distante, il post metal. Strano infatti respirare le atmosfere rarefatte del doom dei My Dying Bride con l'alternanza vocale pulito-growl che trova modo di muoversi attraverso ritmiche che sembrano prese in prestito dai Cult of Luna. Cosi si presenta infatti "Alba Artificiale", pezzo evocativo dove mi suona parecchio strano sentire un growling minaccioso interamente cantato in italiano e dove a tratti mi sembra anche di risentire i Klimt 1918 degli esordi che si mischiano con gli Isis. Strano no? Interessante quindi questo connubio, a cui inevitabilmente dovrò farci l'orecchio per l'accostamento alquanto anomalo. E "Assenza di Gravità" segue a ruota, con Ignazio Simula dietro al microfono che, in versione pulita, sembra avere ancora ampi margini di miglioramento, mentre in versione gutturale dà prova di grande maturità. Ma è la musica a destare il mio più vivo interesse, visto che si muove sinuosa tra territori doom e divagazioni post, non dimenticandosi peraltro di una certa componente malinconica in pieno stile Katatonia, come palesato nell'incipit di "In Orbita". Poi qui si piomba nelle tenebre di un sound minimalista che sfocierà in un death doom melodico meditativo e intenso, grazie ancora alla performance oscura del bravo Ignazio, che nelle clean vocals si sforza di emulare quella di Aaron Stainthorpe, frontman dei My Dying Bride. La conclusiva title track è un pezzo strumentale, retaggio di ciò che erano gli Apneica agli esordi, una realtà dedita a introspettive sonorità strumentali. Esperimento riuscito. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2015)
Voto: 75

Manitu - Raw

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock
Dal cuore della Svizzera, i Manitu sfornano il loro, se non erro, terzo album, con un titolo che è un manifesto programmatico. 'Raw', ovvero grezzo, selvaggio, poco incline alla morbidezza. Dieci brani per circa 40 minuti di rock duro, dal respiro decisamente internazionale. Quello che spicca prima di ogni altra cosa è la voce e la personalità di Manna Lia, una ragazza che ci sa fare e sa come catturare l’attenzione e tenerla desta lungo tutta la durata del disco. In realtà la cantante non è esattamente alle prime armi, avendo alle spalle diverse esperienze anche oltreoceano. La sua innegabile energia, unita ud un timbro che ricorda ora Alanis Morrisette, ora una sorta di versione femminile di Eddie Vedder, sembra contagiare i suoi compagni di avventura (David Grillon alle chitarre, Lionel Ebi al basso, Fabio Duro alla batteria) che risultano convincenti nel loro declinare un rock fortemente influenzato dagli anni '90, a metà strada tra il nu-metal, il grunge piú metallico di Soundgarden e Alice in Chains, e il rock da stadio di Foo Fighters o Skunk Anansie (paragone plausibile non solo per il fatto di avere una cantante donna). I Manitu piacciono quando spingono sul pedale dell’acceleratore, come nella trascinante opening track “What you Realize”, o in “Blind” dove fa capolino anche un’interessante vena protopunk alla Stooges, e si dimostrano capaci anche di inaspettate aperture melodiche di grande respiro e potenziale come nel chorus di “The Edge”. Ma i momenti in cui si fanno preferire, quelli in cui riescono a sfoderare una personalità piú definita, sono quelli in cui i ritmi rallentano e la componente emotiva reclama piú spazio: “24/7”, “Another Lie” o i saliscendi della conclusiva “Mary”. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tuttavia 'Raw' è un lavoro sincero e appassionato, che potrà sicuramente guadagnare ulteriori punti nella sua riproposizione live. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

domenica 27 settembre 2015

Hollow Haze - Countdown to Revenge

#PER CHI AMA: Power Sinfonico
I vicentini Hollow Haze, capitanati dal chitarrista fondatore Nick Savio fin dal 2003, hanno da poco pubblicato il loro sesto album in studio, ‘Memories of an Ancient Time’, il quale sta riscuotendo un discreto successo. Tuttavia, quello di cui andiamo a parlare oggi è il precedente full-length della band, quel ‘Countdown to Revenge’, pubblicato nel 2013, che forse rappresenta il loro lavoro migliore. La formazione degli Hollow Haze del 2013 vede dietro al microfono il signor Fabio Lione, veterano della scena power italiana (Rhapsody of Fire, Vision Divine, Labyrinth), che sicuramente rappresenta una spinta in più per il gruppo veneto. Punto di forza di ‘Countdown To Revenge’ è la collaborazione anche con la Wintermoon Orchestra di Simone Giorgini, che apporta una interessante innovazione nel sound della band, amalgamando la potenza delle composizioni di Nick Savio ad azzeccate orchestrazioni sinfoniche, le quali fortunatamente non rubano mai la scena, ma vanno ad inserirsi nel sound dei nostri senza appesantirlo troppo. Lo si può percepire già dalla cavalcata iniziale “Watching in Silence”, che si presenta con un pomposo intro orchestrale fino all'ingresso della band che ci travolge con la sua accelerata, a cui partecipa anche l'orchestra che sembra non mollare mai la presa, andando a creare uno dei passaggi più belli del disco. Le atmosfere sinfoniche ci accompagnano fino alla fine del brano (e anche per tutto l'album), in cui possiamo apprezzare anche un ottimo assolo di chitarra, che mette in luce le doti tecniche di Savio. Il disco prosegue con il tipico sound power-moderno dell’ensemble veneto, sempre accompagnato dalla Wintermoon Orchestra e arricchito dalla voce del grande Fabio (che qui si è occupato anche della stesura dei testi) che ci accompagna fino all'interessante suite che dà il nome all’album, per poi concludere con la strumentale “The Gate To Nowhere” che ci riporta alla dimensione iniziale. Un altro ottimo passaggio a favore per la formazione vicentina, che con quest'album mette a segno l’ennesimo colpo per farsi largo nella scena, valorizzati peraltro dal sempre ottimo lavoro di produzione da parte di Sascha Paeth, sicuramente uno dei produttori in circolazione più in gamba in assoluto che rende questo disco uno spettacolo di suoni. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Scarlet Records - 2013)
Voto: 80

http://www.hollowhaze.com/

sabato 26 settembre 2015

Hamleypa - Im Morgen von Einst

#PER CHI AMA: Post Black Atmosferico, Deafheaven, Austere
Partito come un progetto di due musicisti nel 2007, la band di Norderstedt ora consta addirittura di sei loschi individui che si celano dietro le sole iniziali dei loro nomi, dietro il monicker Hamleypa e il titolo di quest'album che tradotto starebbe a significare "La mattina di Einstein". Oltre a questo non riesco a spingermi e la curiosità di sapere cosa risiede nei testi di quest'act teutonico si fa molto forte. Nel frattempo vi posso spiegare che cosa potrete attendervi dalle note di 'Im Morgen von Einst' ossia quattro lunghi brani di sofferente black atmosferico. Il disco esordisce infatti con il sound crepuscolare di "In Tausenden Flüssen" (la traduzione di "in migliaia di fiumi") che lascerà ben presto spazio alla furia iconoclasta del suo riffing zanzaroso black (scuola Austere) su cui si staglia lo screaming, non proprio raffinato, del suo frontman. Per fortuna lungo gli undici minuti di flusso sanguinoso, il sound secco della band trova modo di adagiarsi in arpeggi acustici, aperture malinconiche e velenose epiche cavalcate. Peccato che la produzione non proprio impeccabile, penalizzi il suono globale, rendendolo talvolta un po' troppo impastato in cui si fa più fatica a riconoscere i singoli strumenti piuttosto che le vocals belluine del cantante. Con "Endlos" (infinito) la musica non cambia e ci abbandoniamo pertanto alle violente percussioni dei nostri che si intrecciano con le rasoiate delle sei corde e il feroce cantato dell'oscuro vocalist, ma non temete perché nell'arco dei suoi quasi dieci minuti, la song troverà anche il modo di dare spazio ad aperture dal lontano sapore shoegaze cosi come pure a nevrotiche spinte di black funesto o a delicati tocchi di piano che delineano uno dei pezzi più ad alta tensione di questo debut album. "Diese Welt, das Was War, die Erinnerung an Dich, Unser Werk War es und Unseres Allein" è interessante per il suo lungo ed enigmatico titolo e altrettanto per il contenuto che non si discosta, strutturalmente parlando, dalle precedenti song, con l'alternanza tra foga black e passaggi atmosferici. A chiudere 'Im Morgen von Einst' ci pensa la demoniaca (almeno a livello vocale) "Algol", song che conferma la bontà della proposta del combo teutonico, ma sul cui sound suggerisco qualche miglioria a livello vocale e a livello di produzione, per poter presto sfondare con un nuovo lavoro che consenta ai nostri di stare accanto a fenomeni del calibro dei Deafheaven. (Francesco Scarci)

(Throats Productions - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Hamleypa