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mercoledì 23 ottobre 2013

Revolted Masses - Us or Them

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Soulfly, Sepultura
Entusiasmante. Questo il mio primo pensiero, cliccando il tasto repeat sul lettore cd. I Revolted Masses sono 5 ragazzi provenienti dalla Grecia che, dopo aver pubblicato 2 demo, danno alle stampe il loro esordio; al primo ascolto, il deja vu che mi è balenato in mente mi ha riportato a metà anni '90, quando un gruppetto di ragazzotti brasiliani decise di andare a distribuire per il mondo tonnellate di chitarre distorte piuttosto che carnascialeschi motivetti di samba. Erano i Sepultura del mastodontico “Chaos A.D.” e del mai troppo lodato “Roots”; come per i vini di classe e le pietanze prelibate, quello che si percepisce è un retrogusto Sepultura mai troppo invadente, ma persistente per tutte le 11 tracce. La personalità del gruppo è ben presente, il quadro musicale è definito da influenze che pescano a piene mani dalla musica mediorientale, il tappeto sonoro è thrash metal ed anche piuttosto pesante. I ragazzi suonano bene, pestano con criterio e quando decidono di farlo forte, assestano colpi che lasciano il segno. Entrando nello specifico, i primi due pezzi (“Savage Temper” e “ Us or Them”) sono devastanti, per potenza e bellezza. L'incipit del dischetto lascia senza fiato, “se dovesse continuare su questi livelli ci scappa il capolavoro...” penso subito, lasciando che le note colpiscano i timpani; la scaletta continua e ci sono almeno altri tre/quattro pezzi degni di nota, su tutti le mazzate “Deathblock 11” , “Tale of a Tortured Soul” e la conclusiva “Revolted Masses”, che sembra nata apposta per chiudere la scaletta con la giusta dose di violenza. Grande la prestazione agli strumenti, davvero ottime le parti di chitarra, la batteria ha un drumming vario e tecnico quanto basta, il basso fa la sua parte senza mai strafare e la voce è padrona di un bel timbro adattissimo al genere (qua siamo molto vicini a quello di Max Cavalera). Superba la produzione, che è in grado di bilanciare perfettamente tutti gli strumenti e di fornire suoni genuini, caldi ma che evita di far finire tutto in un pastone sonoro a cui molti gruppi ci hanno abituato (purtroppo); per quello che riguarda i testi, i Revolted Masses si riferiscono alla severa situazione economica mondiale, con un occhio di riguardo ovviamente alla situazione della loro nazione; mai banali e profondamente impegnati, gli ellenici hanno sfornato un cd di tutto rispetto, una piacevolissima sorpresa in un genere che ha rischiato più volte, nella sua pur breve storia, di rasentare una monotonia irritante. Insomma, cerco di farla breve: siamo di fronte ad un signor disco, composto e suonato con maestria notevole e che non deluderà chi vorrà accostarvici; chi non vorrà correre questo “rischio”, perderà una buona occasione per capire che la buona musica è ancora in giro. Entusiasmatevi anche voi con “Us or Them”. (Claudio Catena)

sabato 19 ottobre 2013

Abstract Spirit - Theomorphic Defectiveness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Con la Solitude Productions non c’è proprio verso di dormire sonni tranquilli. Dopo gli HellLight, torno a soffrire d’insonnia, tormentato da angosce e paure, contagiato dall’ascolto della nuova release dei russi Abstract Spirit, altra band che già abbiamo visionato sulle pagine del Pozzo. La proposta? Niente di più facile di un funeral doom, in cui un cavernoso e demoniaco vocalist si impossessa del microfono a partire dalla opening (e title) track, “Theomorphic Defectiveness”. Il sound del quartetto russo è decisamente meno accessibile rispetto a quello dei colleghi brasiliani sopraccitati. Meno accessibile perché di fondo vi è meno melodia, le tastiere sono decisamente meno invasive, seppur scandiscano i tempi, vi è un minor minimalismo sonoro; tuttavia qui si può trovare una maggiore imprevedibilità (l’uso delle trombe ad esempio nella breve “Leaden Dysthymia”), cosa assai rara per un genere ostico come questo. La cadenza dei nostri è sicuramente marziale, le ambientazioni nella loro cupezza, riescono addirittura ad infondere un senso di forte malessere interiore, tale da farci suggerire dalla label russa, l’etichetta per i nostri, di horror funeral doom band. Ben ci sta, aggiungo io, perché anche un ascolto non attento delle tracce, porterebbe a tale conclusione. Da brividi, non certo di piacere questa volta, l’impatto che il combo moscovita ha su chi scrive. L’oscurità di una notte senza luna si fa ancora più scura con la seconda song, “За сонмом цветных сновидений”, lenta e ossessiva nel suo macabro incedere. La voce da orco di A.K. iEzor è poi spaventosa, trasmettendo una malvagità primordiale. Le stridule ma efficaci chitarre offrono rari frangenti di epicità che richiamano il sound dei Primordial, ma non fatevi ingannare troppo, perché la musica dei nostri viaggia a rallentatore, seppur nella loro pomposa veste orchestrale. L’odio sgorga a fiumi dalla disarmonica quanto mai fluida colata lavica che emerge dagli strumenti di questo affascinante ensemble. Una voce femminile, quella di Stellarghost (la brava tastierista), fa capolino nella funerea “Prism of Muteness”, song che vanta un’ottima orchestrazione e anche la più varia del lotto. Con “Under Narcoleptic Delusions” si fa infatti ancora visita al catacombale antro della band, che chiude questo quarto capitolo della loro discografia con una monumentale cover degli Skepticism, “March October” per un finale all’insegna della cupezza totale. “Theomorphic Defectiveness” è in definitiva un album intrigante per certi versi, ma di difficilissimo approccio se non siete proprio dei fan del genere. Rischiereste seriamente di farvi male. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 70

Mother of Worms – The Grimoire of Abomination Tales

#PER CHI AMA: Black old school, Black'n'Roll
Prima di cominciare, una doverosa precisazione: non nascondo un certo grado di fatica fatta dal sottoscritto nell’affrontare un lavoro del genere, che comunque cercherò di analizzare nel modo più oggettivo possibile. Detto questo, parto col dire che il gruppo in questione non ci presenta nulla di nuovo con questo disco, avendo semplicemente raccolto il loro materiale composto per i precedenti 4 EP e sbattuto in una, udite udite, musicassetta. A giustificazione della compilation cito direttamente dal booklet: la band vige in uno stato di costante ed implacabile adorazione dei demoni della concupiscenza e della perversione, troppo pigra per vomitare un nuovo full-lenght. Ecco, a proposito del booklet, si tratta di un tripudio di pentacoli, croci rovesciate e crocefissi usati a mo’ di strumenti per trastullo personale, schizzi e spruzzi di sangue vario, borchie, catene ed accessori bondage, asce, per finire con nudi integrali con tanto di ciuffi di peli pubici e peni in erezione... credo di non aver dimenticato nulla. La tracklist si apre con “Cunt of Christ”. A questo punto è chiaro dove vogliono andare a parare i nostri, e lo fanno con 10 pezzi che spaziano tra il black metal più gracchiante ed old-school, un blackened punk-rock ed un black’n’roll dalle sonorità più settantiane, presentati con una produzione sporca (lercia a momenti) e zero fronzoli. Data la naturale bipartizione lato A - lato B della musicassetta, grosso modo possiamo riconoscere nei primi 5 pezzi (che corrispondono ai primi due minialbum “Demonatrixxx Butchery Cult” e “Hinterland”, rispettivamente del 2010 e 2011) l’anima più metal-oriented della band, mentre il lato opposto vede emergere uno spirito più punk-rock (“Silvia: Saint of Hell” – con riferimento alla procace pornodiva ceca Silvia Saint - e “Sex. Blood. Darkness”, entrambi del 2012). La band non schiaccia mai fino in fondo il pedale dell’acceleratore, affidando la struttura portante delle canzoni al semplice intreccio chitarre-batteria, mentre il basso ne esce spesso penalizzato data la qualità dell’incisione. Ai pezzi musicali poi si intrecciano carrellate di gemiti di piacere e godimento miste a grugniti, francamente fastforwardabili (FFW, è una musicassetta dopotutto). Non vi sono pezzi che emergono in modo preponderante sugli altri: segnalo solo “Under the Sign of Evil”, minimamente più in linea con le preferenze del sottoscritto in quanto a riff, e “Ritual 2012”. In breve, abbiamo a che fare con dei musicanti discreti, ma nulla che faccia realmente gridare al miracolo... che, visto lo spirito del disco, forse risulterebbe fuori luogo come termine (si insomma, i membri del gruppo potrebbero non prenderla bene). Certamente viene da chiedersi come potrebbe essere assistere ad un live show di questa band: paradossalmente, la resa rischierebbe di risultare migliore di quanto proposto su nastro, arricchita della forte e indispesabile componente scenica sulla quale il gruppo investe per tenere in piedi il carrozzone da indemoniati “pornosadomasosplatterdipendenti”. Curiosità, la discreta cover di “Fuck the Dead” di GG Allin e, se non sapete chi è, allora dieci Ave Maria ed un Pater Noster! Per concludere: senz’altro questa summa maxima, da un punto di vista prettamente musicale, scorre via abbastanza velocemente, ma altrettanto velocemente si perde perché priva di una vera idea che riesca a far presa nelle orecchie di chi ascolta. Per quel che riguarda tutto il resto lascio il giudizio finale a chiunque avrà voglia di imbarcarsi nell’ascolto di questa compilation... ma se permettete un pensiero personale, roba del genere non dovrebbe più esistere: le croci rovesciate, il sangue finto, i cazzi in tiro sbandierati hanno fatto il loro tempo e forse siamo abituati a tanto di quel peggio con cadenza quotidiana che, al fine di creare scalpore, tutto questo non basta più. Se invece lo scopo era puramente ludico, credo che vi siano sistemi ben più efficaci e, soprattutto, originali per risultare dissacranti. Amen. (Filippo Zanotti)


(Self - 2013) 
Voto: 60 

venerdì 18 ottobre 2013

Wine From Tears - Glad to be Dead

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun
Anche i Wine From Tears fanno il proprio ritorno sulla scena dopo ben quattro anni di silenzio. La band russa, alfiere di un death doom, non tradisce le aspettative, offrendo una proposta che migliora quanto fatto in “Through the Eyes of a Mad”. Pur mantenendo intatte le influenze di Saturnus, Draconian o Officium Triste, la nuova release dei nostri assume maggior dinamicità nel suo flusso musicale. Un’intro e poi è “Allergic Sun” a darci il benvenuto con la sua perfetta miscela tra riffoni doom, placidi tocchi di pianoforte, malinconiche melodie affrescate dalla seconda chitarra e il classico vocione growl a cui si contrappone la classica voce pulita (non troppo convincente però). Gli ingredienti del genere ci sono tutti, sta nell’abilità ed estro delle band combinarli nel giusto modo. E i Wine From Tears direi che ci riescono egregiamente, proponendo alla fine un lavoro che si lascia piacevolmente ascoltare. “What are you Waiting for?” soffre magari un po’ dell’influenza dei primi Paradise Lost nella sua prima parte, ma poi il compitino lo portano a casa, grazie ad un finale in cui si rivela un crescendo emozionale e musicale. Ancora i caldi tocchi del pianoforte ad aprire “In Memory of the Truth” e poi le chitarre d’accompagnamento in una song che vive il suo maggiore sussulto nel rockeggiante e ipnotico break centrale. “Let me in” e a ruota tutte le successive tracce non si distaccano poi molto dal canovaccio fin qui creato, pescando idee, influenze un po’ qua e là dalle band fin qui citate e anche dai primi lavori di Swallow of the Sun o Katatonia. Unica song che sembra prendere le distanze da quanto fatto è la conclusiva “Silence no More” che tra sole voci pulite, affiancate dall’estro di una dolce donzella e ritmiche orientate al versante gothic, fanno apparire i nostri in una veste più vicina ai nostrani Lacuna Coil. Il risultato finale non sarà certo memorabile, tuttavia “Glad to be Dead” si rivela un album piacevole ai primi ascolti ma che forse alla lunga rischia di finire nel dimenticatoio. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music - 2013)
Voto: 65

http://winefromtears.bandcamp.com/

giovedì 17 ottobre 2013

Marydolls - La Calma

#PER CHI AMA: Pop Grunge, Stoner
Come ogni anno non può mancare il consueto appuntamento: si prende un buon gruppo rock dall'underground e lo si lancia nell'ormai fatiscente scena musicale italiana. Essendo ovviamente un'operazione a scopo di lucro, tutto ciò deve rispettare i requisiti del perfetto business. I Negramaro sono l'esempio lampante del gruppo che ha dovuto scendere a compromessi per poter sfondare, i Modà sono un prodotto per attirare folle di adolescenti ai concerti, i Blastema stanno nel mezzo e avanti così. La qualità e la creatività perdono sempre se messe contro il portafoglio, ma senza spendere altre parole sull'argomento, parliamo dei Marydolls. I nostri bresciani hanno fatto la classica gavetta sin dal 2001, partendo dalla scena alternative nuda e cruda del nord Italia per arrivare poi a condividere il palco con qualche buon manico di casa nostra (Verdena in primis). "La Calma" è un pop grunge, condito da bei suoni e testi, ogni tanto con qualche botta di vita che stona con i passaggi lenti e troppo pop di altri pezzi. Il vocalist segue uno stile sospeso tra Ministri e Max Gazzè, regalando delle sfumature non banali che si fanno ascoltare con facilità, mentre chitarre e ritmica attingono alla vecchia scuola di Seattle. "Mi Faccio a Fette" è una bella traccia, corretta dal punto di vista commerciale, ma che trasuda quello che i Marydolls covano sotto e vorrebbero tirar fuori. Bei riff che non brillano di creatività, ma un sapiente uso di break e assolo fatti di armonica a bocca rendono piacevoli i quasi quattro minuti di canzone. Ne hanno tratto anche un video, se volete andare a cercarvelo. La terza traccia trasuda sonorità blues polverose, ritmo che batte in testa e arpeggio di chitarra acustica, però poi gli arrangiamenti con gli archi tradiscono la promessa iniziale e lascia un pò insoddisfatti. Personalmente avrei proseguito con lo stile dell'incipit, più personale e in stile Bud Spencer Blues Explosions. Chiudiamo con "Tangenziale" che apre con un giro di chitarra tra il grunge e lo stoner, bella energia e un testo ricco di metafore taglienti e liberatorie. Il pezzo prosegue e cresce strizzando l'occhio ai Ministri e alla scena emergente italiana fatta di polvere e sabbia, ovvero stoner. Uno di quei pezzi che rischia di infilarsi sotto la doccia e non ti lascia per qualche giorno. Direi il mio pezzo preferito. Ascoltando qualcosa del precedente album devo dire che i Marydolls hanno fatto un lavoro di affinamento che ha portato ad avere un sound più abbordabile e facilmente passabile in radio. Non nascondo che mi piaceva assai, spero solo che il patto con il diavolo non li porti distante dalla linea tracciata qualche anno fa. Il susseguirsi di vari stili in questo "La Calma" sembra quasi un urlo al cielo alla ricerca di una identità, in eterna lotta tra bene e male. (Michele Montanari)

(Indiebox - 2013)
Voto: 70

http://www.marydolls.it/

Lander Configurations - Of Smoke and Fire

#PER CHI AMA: Post Rock
Di nuovo post-rock, questa volta direttamente dalla lontana Australia per conquistare il vecchio continente a suon di delay e riff emozionali. I Lander Configurations (LC) si presentano con questo digipack di otto tracce registrato nel lontano 2008 e finalmente pubblicato nel 2011. Tralasciando i motivi per questo epico periodo di gestazione, i LC si giocano il tutto per tutto puntando sui suoni delle chitarre e la parte vocale, eterea e presente in pochissimi passaggi. Nonostante si definiscano prog/post rock, la prima componente è totalmente assente, infatti l'ambient calzerebbe meglio per definirli in un particolare contesto rock. Ma veniamo alle canzoni. Premetto che di post rock ne è girato parecchio in questi ultimi anni e attualmente resistono solo le band che sono riuscite ad affermarsi con uno stile proprio. I LC sono caratterizzati da riff e ritmiche lente, che però non sfociano mai in un cambio di direzione, anche solo quell'accelerazione che potrebbe riscattare i brani. "I Killed a Spider" è paragonabile ad un coitus interruptus, infatti i LC ci illudono con un progressione che sembra un preludio ad una esplosione, ma sul più bello si ammoscia e torna alla strofa iniziale. Più di dieci minuti con questo schema mettono alla prova anche i più accaniti fans del genere, fidatevi. Ottimi suoni, per carità, ma al giorno d'oggi non è così difficile trovare un buon delay, attaccarci uno slide o un e-bow, bisogna però saperlo fare con stile e in modo accattivante. Il rock vuole melodia, riff che ti trapanano il cervello anche a distanza di giorni, non serve solo mettere in pratica le ore ad ascoltare Sigur Ros e compagnia bella. Bisogna spremere le meningi e sudare ore sulle corde, questo "Of Smoke and Fire" è stato un antipasto un pò freddino e scarno, ora aspettiamo la portata principale. Speriamo che i LC ci stupiscano, altrimenti io muoio. (Michele Montanari)

(Bird's Robe Records - 2011)
Voto: 60

http://www.landerconfigurations.com/

mercoledì 16 ottobre 2013

Solacide - Waves of Hate

#PER CHI AMA: Death Thrash Progressive, Children of Bodom, Carcass
Finlandia, fucina di band, da sempre. Ecco la new sensation dal paese dei mille laghi, i Solacide e il loro EP, “Waves of Death” che altro non è che il demo del 2006 a cui sono state aggiunte due tracce live, di cui una dal precedente EP, “Baptized in Disgust”. L'attacco della title track è bello tirato e mette in luce la direzione musicale dei nostri: un death progressive che trova solo nelle vocals urlate, un leggero punto di contatto col black. Affilate come rasoi, le chitarre girano a mille con splendide melodie che poggiano su una ritmica death/thrash. Buone le linee melodiche, ottima la performance dei singoli musicisti, ma su questo avrei messo la mano sul fuoco, notevoli e frequenti gli assoli, per cui ho accostato la musicalità dei nostri a tre band che poco hanno in realtà da spartire tra loro, Megadeth, Children of Bodom e Cynic. Con “Your Worst Enemy” si pesta che è un piacere: l'uso del blast beat non è disdegnato, Gökhan grida come un invasato dietro al microfono, mentre il duo d'asce, formato da Kimmo e Joonas, si diverte un casino a rincorrersi con le taglienti 6-corde. Spaventoso poi il lavoro di precisione chirurgica di Matti dietro alle pelli: picchia come un assannato con Sami che gira al basso funambolicamente. Quando la chitarra di Kimmo parte con le sue fughe solistiche è vera delizia per le mie orecchie: un po' Carcass e un po' Amon Amarth, di certo il nostro axeman mostra un'invidiabile tecnica. “After the Fall” apre in acustico, irrompe l'elettrica, ma poi è una ritmica sincopata che accompagna le clean vocals di Kimmo, bravo sia in fase strumentale (con un'altra serie di splendidi solos) che vocale. I Solacide in studio mi piacciono molto, non lo nascondo e mi sorprendo del fatto che questo sia materiale vecchio di sette anni, chissà come suonano oggi i nostri. Vado a dare un ascolto al live, si tratta di una performance del 2010. “God on Fire” è una roboante traccia di black death, estratta dal precedente EP che mette in luce la ferocia della band in sede live, pur mantenendo inalterata le qualità compositive, evidenziando qualche inevitabile imperfezione tipica dei live (che su album non apprezzo granché) e denota un po' in carenza in fatto di dinamicità e di virtuosismo solista. La conclusiva “Nothing Weak Survives” è un vecchio pezzo quando ancora si chiamavano Dim Moonlight: la sua crudezza delinea una ancora non del tutto formata maturità anche se le ritmiche sincopate e l'onnipresente lavoro in fase solistica, evidenziano già le ottime potenzialità di una band, di cui auspico presto parlare per un definitivo full album. Attendo pertanto con ansia per capire se le mie aspettative verranno soddisfatte. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

http://www.solacide.com/

We Hunt Buffalo – We Hunt Buffalo

#PER CHI AMA: Grunge, Stoner, Queens of The Stone Age
C’era un tempo in cui i dischi ancora si vendevano, e la possibilità di vivere (bene) solo di musica non era un concetto astratto. La mia generazione si potrà fregiare in futuro del titolo dell’ultima ad avere frequentato con una certa regolarità un negozio di dischi, inteso proprio come luogo fisico, fatto di muri e mattoni, con scaffali ed espositori, e sebbene speri che questo fatto mi doni un’aria da eroe romantico, temo che mi lasci solo addosso l’odore polveroso del sopravvissuto. Ebbene, in quell’epoca, un gruppo come i canadesi We Hunt Buffalo non avrebbe avuto difficoltà a firmare per una major, e un disco come questo loro debutto, molto probabilmente, avrebbe potuto vendere diverse centinaia di migliaia di copie. Ma, come tutti sappiamo, oggi le cose sono un tantino diverse, e lavori come questi rischiano di rimanere del tutto sotterranei, anche quando avrebbero un potenziale ben diverso. Per fortuna i tentacoli del Pozzo arrivano davvero ovunque… I We Hunt Buffalo sono un power trio dei più classici, chitarra-basso-batteria, e suonano un rock saturo ma non privo di sfumature, che si colloca da qualche parte tra il grunge (qualsiasi cosa voglia dire questa abusatissima non-definizione) e lo stoner, per un risultato finale non troppo distante da quello ottenuto dai Queens of the Stone Age di "Songs for the Deaf" e i Motorpsycho di metà anni '90. Gli ingredienti sono dunque ben noti: sezione ritmica potente e precisa, con un bel basso spesso saturo e distorto, chitarre fuzz al punto giusto, e una voce convincente, che si staglia subito alta nel pezzo di apertura, “Strange Sensation”, sorta di ibrido tra Soundgarden e gli ultimi Mastodon. I tre mettono in mostra una notevole versatilità, pur nel solco dei sopra citati maestri, con un occhio sempre rivolto anche agli anni '70, e un’invidiabile vena melodica in brani come “Northern Desert” o la splendida “Digital Reich”, piccolo capolavoro di costruzione in equilibrio tra melodia e potenza, mentre “The Search” e “Someone Other” potrebbero essere uscito da qualche cassetto nascosto degli schedari di Josh Homme. Resta da dire delle interessanti derive post-rock della strumentale “Harry Barry”, posto in chiusura, e di una “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, suonata con tanta potenza e totale rispetto per l’originale, sulla cui utilità si potrebbe discutere, ma che non sfigura e non suona fuori posto all’interno di un lavoro coeso, solido e al quale manca pochissimo per raggiungere il livello dei modelli a cui aspira. Attesi ad una conferma, magari con un pizzico di personalità in più, ma per il momento molto, molto interessanti. (Mauro Catena)

(Self - 2012)
Voto: 75

http://wehuntbuffalo.com/

martedì 8 ottobre 2013

Luciferi – V

#PER CHI AMA: Psichedelia, Motorpsycho, Karma to Burn
Luciferi è una band parmigiana composta da tre elementi in formazione classica e tipicamente rock, basso, batteria e chitarra. La loro musica è un raccoglitore di varie tipologie sonore che ruotano attorno alla galassia del noise rock, qui proposto in veste strettamente strumentale con richiami plurimi a stoner rock, psichedelia, alternative rock. Analizzando il sound, subito ci rendiamo conto che i Luciferi non hanno tracce heavy di nessun tipo nel loro background musicale infatti, non si parla di post metal, post noise o post core ma al massimo possiamo tentare di spingerli verso il post rock (anche se sarebbe un po' come sviare i loro intenti...) ma meglio dire che i nostri vedono il rock' n roll con gli occhi dei Motorpsycho, con tanta psichedelia '60s & '70s, aperture alla Mogwai e atmosfere fumose e desertiche. Non che l'impatto sia spudoratamente desert rock ma sicuramente dei richiami cosmici ci sono. Per l'impianto a tre strumentale ricordano i Karma to Burn anche se non sono così acidi e ruspanti, possono ricordare i Jesus Lizard ma sono meno punk e più lisergici, scivolano tra le frequenze degli And You Will Know Us by the Trail of Dead ma si rendono comunque originali perchè fondono l'urgenza creativa, romantica e rumorosa dei The Pineapple Thief; infine possiamo dire che in alcune parti hanno un tocco molto carino e tutto rock alternativo italiano che si rivela sulle cadenze dei più recenti Diaframma e Marlene Kuntz. Detto questo, ci sembra ovvio pronunciare un verdetto più che favorevole nei confronti dei Luciferi. Una band con queste caratteristiche che prende spunti da così tanti modi diversi di fare musica rock e allo stesso tempo riesce a mantenere una sua peculiarità stilistica non può altro che giovare nell'abbandonato sottosuolo italico. Ricordando che "V" è un album autoprodotto e degnamente realizzato sia come suoni che come grafica dai nostri luciferini, vi invitiamo a gran voce di andare ad ascoltarlo e a farvi contagiare un bel pò... (Bob Stoner)

Trippy Wicked and the Cosmic Children of the Knight – Underground

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss, Monster Magnet
Una bella botta, l’impatto con questo nuovo Ep dei Trippy Wicked (non me ne vorranno i tre inglesi se abbrevio così il loro nome, con buona pace dei “bambini cosmici del cavaliere”): la title track non è altro che una vagonata di fuzz che ti spettina per lo spostamento d’aria, chitarre ribassate, andamento lento nel suo stomp pestone ma inesorabile, e la voce che disegna melodie dal sapore molto seventies, qualcosa tra i Monster Magnet e dei Kyuss meno desertici e più acidi. La successiva "Echoes Return" è un’altra colata lavica di riff assassini, nella quale è sepolta una linea vocale irresistibile stile vecchi Soundgarden (Chris Cornell darebbe un rene per poter scrivere un pezzo così, oggi). Non sono esattamente dei virtuosi, i Trippy Wicked. Il loro approccio allo strumento è molto, per così dire, sanguigno e concreto, e c’è poco spazio per le sottigliezze. Forse anche per questo, “Enlightment” e “Discovieries”, le due tracce strumentali poste al centro del lavoro e unite in una sorta di suite, paiono un tantino prolisse e fuori fuoco - al di là della bontà di certe intuizioni - come un pittore dilettante che avesse deciso di dipingere un tramonto per il quale sarebbero stati necessari colori (mezzi toni, più che altro) che attualmente mancano alla sua tavolozza. Le cose vanno decisamente meglio quando tornano a fare quello che sanno fare meglio, ovvero suonare pezzoni acidi e groovy con la manopola del volume sempre sull’11, alla maniera degli Spinal Tap, come nella conclusiva, "New Beginnings", sette minuti di stoner pesantissimo e annichilente. Lavoro nel complesso godibile e interessante. Da seguire per eventuali ed auspicabili evoluzioni future. (Mauro Catena)

(Super Hot Records - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/trippywicked

lunedì 7 ottobre 2013

Throne - Avoid The Light

#PER CHI AMA: Sludge, Stoner-doom, Spiritual Beggars, Weedeater, EyeHateGod
L'artwork di questo primo full-lenght degli italianissimi Throne prepara già al peggio: esoterismo, oscurità e magia nera si fondono per vestire un digipack ben curato. Musicalmente parlando, il quintetto si muove nelle coordinate dello sludgecore di ispirazione sudista, parecchio condito da elementi punk e metal (per intenderci: più EyeHateGod e Weedeater che Baroness) e arricchito da una voce potente come poche se ne sentono ultimamente. La medaglia d'oro per la performance va infatti alla voce di Samu: roca, profonda, violenta e oscura, dà il vero colore all'interno di ogni singolo pezzo e personalità all'intero lavoro. Ottima la prova di tutti gli altri; forse appena sottotono la batteria, che non ama grandi fantasie ma predilige il colpo sicuro e ben piazzato. C'è davvero poca luce in questo album: i riffing di chitarra sono a tratti oscuri e ridondanti fino all'ossessione ("Prefer To Die" – sentite che arpeggio in apertura, roba di prima classe –, "Black Crow", "Forsaken"), a tratti violenti e veloci accompagnati da un drumming di ispirazione hardcore ("Buried Alive", "3 Days Of Rain"); c'è qualcosa dello stoner di scuola Down e Spiritual Beggars ("Smoke-Screen", "God Sent Me To Kill You": saltate a 3:47 e gustatevi il riff più indimenticabile dell'intero lavoro). Ma c'è poco citazionismo in "Avoid The Light", tutt'altro traspare la volontà personale dei Throne, che hanno senz'altro le idee molto chiare sulla musica che vogliono proporre. Per fortuna, i Throne non cadono nel trucco di infilare qua e là delle tracce di rumori giusto per dire "Toh, facciamo pure la pissichedelia": il giochino sta iniziando a stufare. I cinque prediligono, insomma, la via dura: ogni singola traccia è un pugno in faccia all'ascoltatore, diretto, ben piazzato e senza scampo, che vi lascerà un livido per parecchio tempo.(Stefano Torregrossa)

HellLight - No God Above, No Devil Below

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric, Thergothon, Skepticism
HellLight atto terzo (per il sottoscritto), dopo le precedenti brillanti recensioni di “...and Then, the Light of Consciousness Became Hell...” e “Funeral Doom” anche se “No God Above, No Deilv Below” rappresenta in realtà la quarta release della band paulista. Da sempre fautrice di un sound claustrofobico all’insegna del funeral doom, il quartetto di San Paolo sfodera l’ennesima eccellente prova, nonostante le proibitive durate a cui, da sempre, ci sottopongono i nostri. L’album, che contiene sette tracce più un intro, affida i suoi umori subitamente alla lunga title track. La song ci lavora ai fianchi con il suo ritmo lento e ossessivo, in cui a trasudare è un profondo senso di cupa desolazione. Accanto ad una discreta robustezza delle chitarre, direi che è il lavoro alle tastiere di Rafael Sade a svolgere un ruolo di massima rilevanza. Di spessore poi la performance vocale di Fabio de Paula, sia nella veste tipicamente growl, che in quella pulita. Sottolineerei di questa traccia anche la sezione solista, in cui è sempre il buon Fabio a mettersi in luce, con una prova magistrale, quasi da famigerato top player calcistico. “Shades of Black”, cosi come pure le seguenti tracce, danno ampio spazio alla componente musicale, continuando quell’opera di ammorbamento che avevo già identificato nei precedenti lavori. Rispetto al passato, un più ampio spazio viene lasciato alle clean vocals che donano maggiore epicità al lavoro, soprattutto in rare ariose aperture, in cui il buon Fabio si lancia in cantati a squarciagola. Non ci sono sostanziali mutamenti rispetto ai precedenti lavori, il che certo non guasta, ma alla lunga rischia di stancare, se non siete proprio dei grandi fan del genere. “Unsacred” apre con un bel muro chitarristico sorretto da toccanti note di tastiera, e poi il nichilistico vocione del vocalist ci accompagna nella recondita oscurità delle tenebre. Le atmosfere si fanno ancora più rarefatte e deprimenti; un break ambient e poi un bellissimo assolo di chitarra fende le nostre teste. In “Legacy of Soul” il cantato si fa quasi sussurrato su una porzione musicale piuttosto minimalista, anche se dopo un paio di minuti l'act brasileiro rialza la testa, aggravando i toni e la componente emozionale della loro proposta. “Path Of Sorrow” è un’altra bella mazzata di puro pessimismo cosmico senza soluzione di continuità: un po’ Skepticism, Thergothon ed Esoteric, questa song incarna appieno lo spirito noir della band brasiliana. Chiudono il disco i 23 minuti del duo formato da “Beneath the Lies” e “The Ordinary Days” che ci annichiliscono definitivamente con le loro opprimenti melodie. Ancora una buona prova da parte del quartetto sud americano che da quasi vent’anni contribuisce a caricare di solitudine i nostri ascolti. Riconferma. (Francesco Scarci)