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lunedì 9 gennaio 2012

Enid - Seelenspiegel

#PER CHI AMA: Black Epic, Summoning
Gli Enid, fondati da Martin Wiese e Florian Dammasch, muovono i primi passi nel 1997 e inizialmente si pongono come unico intento quello di proporre uno stile musicale del tutto simile agli austriaci Summoning. La band, grazie ai due album usciti per la label australiana CCP ("Nachtgedanken" e "Abschiedsreigen"), comincia gradualmente a sviluppare un suono più personale ed è con questo terzo lavoro "Seelenspiegel" che l'identità della formazione tedesca appare maggiormente definita. Lo stile del quartetto di musicisti (che qui si avvale di un quinto elemento alla batteria, ossia Moritz Neuner degli Abigor) può essere definito come un metal dalle forti connotazioni epiche, in cui le parti aggressive toccano l'asprezza del black metal e vengono alternate a momenti più rallentati e sognanti, caratterizzati dall'uso di una voce pulita e da cori dal sapore folk. Una proposta non molto originale ma che, ad ogni modo, risulta apprezzabile per la cura negli arrangiamenti e per l'interpretazione vocale di Martin Wise che sa essere sempre impeccabile e melodiosa nelle parti pulite. Meno convincente è invece la prova nel cantato black che, a mio parere, si rivela incerto e tutto sommato superfluo. 'Seelenspiegel' è un album che pecca di qualche ingenuità ma che risulta comunque piacevole. Consigliato agli amanti delle sonorità epiche e fiabesche. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70
 

Lunar Portals of the Astral Mirror - Незыблемая власть тоски

#PER CHI AMA: Funeral Doom
…e a volte ritorni alle origini, rendendoti pienamente conto del perché certe melodie sono definite ‘spirituali’, della capacità che hanno nell’evocare nel tuo subconscio energie contrastanti e infinite. Come posso non spingermi in riflessioni filosofiche quando sono davanti a questo tipo di eccellenza musicale? Questo non è “un album”, questo è “l’album” per definizione di come dovrebbe essere un depressive-funeral doom. Dovrà entrare per forza di cose negli annali di storia del genere. Non può essere altrimenti. Signori, abbiamo tre singole tracce (di lunghezza variabile) che racchiudono in esse lo spirito di un’inquietudine talmente profonda da non poter essere espressa a parole. Mantenendoci sul piano puramente musicale si evidenzia un uso sistematico di riff tradizionali slow doom, un uso spasmodico dei piatti (non in senso di oppressione, ma di onnipresenza), pesanti corde di chitarre che creano l’atmosfera per le melodie delle tastiere, e il basso (non ci credo ancora) che si espone in desolati assoli. Un suono potente ma non pressante. Passaggi di melodie che trasportano in universi distanti, in antri dimenticati pervasi da un senso di disperata impotenza. Non vi è ostilità in queste note. Ed è bellissimo. Ecco la musica che prende il ruolo di Madre, che incarna il Bene e il Male allo stesso tempo, che sprigiona una forte volontà di riemergere dagli abissi ma che resta salda nella consapevolezza di essere in un guscio protettivo, mentre si dimora nelle tenebre. E quando senti l’armonia che pervade il tuo spirito ti rendi conto che in tutto il disordine è solo la piccola, debole melodia di una tastiera che apre le porte della speranza… come un’anima, sola, che agogna al termine del samsara in quest’epoca di oscura decadenza. Non ve lo scorderete. (Damiano Benato)

(NitroAtmosfericum Records)
Voto: 90

domenica 8 gennaio 2012

Serment d’Allégeance - Serment I & II


#PER CHI AMA: Dark-Ambient
Opera musicale dai forti tratti magico-cabalistici per il factotum celato dietro Serment, un essere mistico che si autodefinisce “La Masque d’Ames”, lasciando intendere all’ascoltatore molto più di quello che può essere un nome. One-man band proveniente dai merovingi territori al di là dei Pirenei, essenza dolce di un genere ancora poco frequentato nei nostri lidi e adatto (anzi, drasticamente consigliato) ad una fruizione esclusivamente personale. Musica composta da e per un singolo soggetto, magia teatrale senza attori né recitazione, excursus di gran classe attraverso adunate di occultisti. “Serment I” e “Serment II” sono da considerarsi come gemelli di un unico parto, creature generate per un fosco black-metal totalmente di stile ambient, dove pressanti tastiere incombono nichilistiche su melodie che hanno in sé qualcosa di terribilmente metafisico. Non aspettatevi andamenti eccessivamente lenti o riff melanconici spudoratamente depressive. “La Masque d’Ames” ci presenta un compendio magico di sublime capacità evocativa, un connubio di temi e suoni da affrontare con lo stesso rigore che potrebbe avere un cabalista. Il progetto rientra in uno studio che non lascia nulla al caso: entrambi gli album presentano nove tracce, suddivise rispettivamente a gruppi di tre (il numero perfetto triplicato) e identificate fin da subito come “Aesthetic Ambient Art”. Se per forza dobbiamo trovare un parallelo storico, questo di sicuro è Burzum. Badate però: siamo lontani dalla violenza sonora e graffiante di un black metal tradizionale o slow; ciò a cui mi riferisco è più il Burzum dei tempi recenti (e, dato che ci siamo, al Mortis degli inizi). Tastiere perduranti e pianoforte a corde; chitarre dai riff brevi, dai passaggi semplici ma perfetti; percussioni quasi assenti; effetti di suono che reinterpretano i rumori attraverso l’eco di sale sconosciute… Pensate a “Serment” come a un magnifico progetto dark-ambient con influenze black presenti a tratti, quasi totalmente strumentale. È opera occulta, certo, ma interpretata con una coerenza, una serietà e uno stile che non mi era mai capitato di affrontare. Più di una volta mi sono tornati alla memoria degli spezzoni di vecchie pellicole cinematografiche dall’inquietante reputazione: Rosemary’s Baby, Omen, la congrega di streghe in Suspiria, le orge mistiche di Eyes Wide Shut… “Serment” è l’opera ideale per una serata occulta… (Damiano Benato)

(Mort-Né Editions)
Voto: 80

Psycroptic - Ob(Servant)

#PER CHI AMA: Death/Mathcore, Heaven Shall Burn, Cryptopsy
Feroci! Questo è l’aggettivo che si può attribuire al quartetto australiano che con questo “Ob(Servant)” giunge al traguardo del quarto lavoro. Fondati nel 1999 dai fratelli Haley, con il nome di Disseminate, la band approda meritatamente alla Nuclear Blast, rilasciando questo energico cd, capace di miscelare sonorità brutal death a malsane influenze metalcore. Il risultato non è proprio originalissimo, visti i tempi che corrono, però si lascia ascoltare anche perché dal muro sonoro eretto dal combo, si riescono a scorgere influenze ben più intriganti, come quelle di The Dillinger Escape Plan o Meshuggah. Sappiate che la furia qui ha trovato casa, con ritmiche sempre estremamente tirate, che si inframmezzano a debordate psicotiche di scuola Dillinger e mathcore in generale. Violenti mitragliate attaccano l’ascoltatore da più parti, costringendolo all’angolo, finendo per metterlo Ko con cupi e dilatati rallentamenti degni della scuola Meshuggah. La band è sicuramente mostruosa dal profilo tecnico, peccato che la batteria suoni in modo un po’ troppo artificiale; rabbiose growling vocals (ma anche spietati screaming) si intrecciano poi a schizoidi e ultraveloci riffs di chitarra e assoli taglienti come rasoi. Credo che il cd pecchi però alla fine, non tanto per il genere proposto, ma per una quasi ossessiva ricerca di suoni articolati al limite del virtuoso che con questo genere magari hanno ben poco ha che fare: le vorticose scale di chitarra hanno infatti il solo effetto di ubriacare l’ascoltatore e niente più. “Ob(Servant)” avrebbe tanto da offrire, forse troppo, ma gli spunti talvolta scadono in eccessive ricerche di tecnicismi fini a se stessi. Selvaggi! (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)
Voto: 70
 

Wormfood - France

#PER CHI AMA: Avantgarde, Fleurety, Arcturus
La prima, e ce ne saranno tante, ve l’assicuro, delle molte stranezze in cui m’imbatto nell’ascoltare questo concept, è venir accolto da una voce che non canta. Assisterò invece ad una lezione di francese. Butto l’occhio sul Cd che ruota veloce nel lettore. Lo guardo. No, non appartiene alla serie del corso di lingua che mi hanno prestato, è proprio “France” dei Wormfood. Aspettate, ora che lo guardo bene, mio Dio sta cambiando aspetto! È diventato un disco flessibile rovente e diamantato che sta smerigliando l’ultimo dettaglio di “Sfera dentro sfera” di Arnaldo Pomodoro: sono investito dalle scintille. Noooo, è cambiato ancora! Adesso è diventato la ciambella glassata rosa pralinata dei Simpsons. Ne vedo cadere a pioggia dal cielo. Ma torniamo a noi: avete mai assaggiato una di quelle caramelle “tuttigusti più uno”, quelle che compra Harry Potter sull’Hogwarts Express? Beh, io l’ho fatto. L’ultima volta che l’ho incontrato, perché siamo ottimi amici, sapete, ne ha offerta una a me e un’altra ad Hermione. Anche in quell’occasione ho ravvisato lo stesso stupore. Questo per darvi un’idea della varietà musicale che caratterizza questa release e di come questa band mi abbia impressionato. Positivamente. Si perché questo è uno di quei casi in cui è sbagliato etichettare la band con “un genere”. Mi trovo piuttosto a passeggiare in una galleria che espone opere d’arte delle più divergenti e disparate correnti musicali: dal doom, thrash, french variety, death, gothic, punk, pop, classic, al baroque, com’è precisamente indicato sul foglietto informativo posto sul retro del disco. Mi chiedo a questo punto se non ci siano controindicazioni. Non ce ne sono di indicate, ma fatevene voi un’idea dopo che avrete finito di leggere queste mie righe. Torno ad ascoltare quella voce, (ah si, il titolo della song è “Lecon de Francais/French Lesson”) dice che mi trovo sulle strade di Parigi. Vengo quindi gettato a capofitto, come risucchiato da un buco nero, in questo onirico viaggio nella perversità francese, nella metropoli parigina per la precisione, dalla voce di un barbone, si proprio un barbone. Ha una voce gutturale, lo sento prima vomitare, sputare per terra poi, ed inveire contro non so chi, non so perché. La sua voce rivela senza alcun dubbio che è completamente ubriaco: a conferma di ciò, il trillare della bottiglia vuota che evidentemente si è appena scolato e che rotola per terra, che gratta sull’asfalto, urtata di sicuro da uno dei suoi passi nel suo incedere incerto. Osservo attorno a lui un và e vieni di auto, un traffico vero e proprio. E lo sento anche, non sto scherzando. Lì vicino passa anche un treno, d’altronde siamo nel bel mezzo di una grande metropoli, Parigi appunto, eppure in un posto del genere, che dovrebbe straripare di gente, avverto la sua solitudine, non c’è anima viva, è completamente solo. Poi un colpo. Secco. Oddio è stato travolto dal convoglio in arrivo. Vedo il suo corpo martoriato rotolare, credo senza vita, in prossimità dei binari. Nessuno lo ha visto, né tantomeno se né accorto. Da vivo esisteva di per sé ma non esisteva per nessuno. Adesso che è morto, poi, almeno credo, non è cambiato, nella sostanza, nulla. La seconda traccia è una canzone vera e propria, “Bum Fight” s’intitola. Parte lenta, con solo chitarra e batteria. Lunghe pause e poi un assolo heavy metal seguito da un growl rabbioso, come se a cantarlo fosse proprio quel barbone: ma allora ancora non è morto... Eh no! Ecco di nuovo le sue invettive. Un rullo in quarti ben scandito ne accompagna la voce che si fa pulita. La traccia continua tra battiti di mani e una fisarmonica prende il sopravvento. Torna la voce ancora growl, la canzone rallenta un’altra volta, stop alle telefonate, e non solo: anche alla voce, si, perché passa un’ambulanza, sento la sirena. Si ritorna quindi a cantare, incazzati neri, ad urlare fino a ferirsi le corde vocali. La traccia si conclude con lo scricchiolio come quello emesso dalla punta del braccio meccanico di un giradischi nella pausa tra una canzone e l’altra. E siamo solo all’inizio. Segue “Ecce Homo”: una folla acclama qualcuno. Squillano addirittura le trombe. E poi una voce intona “…Les Sodomie!” a cui si accodano dei diabolici grugniti che sembrano quelli di un demone, delle frustate con applausi al seguito, il tutto dura poco meno di un minuto, ma mi ha lasciato così, con la mia faccia a sembrare “L’urlo di Munch”. Era quindi l’intro per la successiva “TEGBM (Fantaisie Galante du Grand Siècle)” che parte tra violente scariche di chitarre distorte e un drumming molto pesante. Veloci colpi di charleston aperto introducono un organo e la voce tituba tra il growling e un pulito a tratti. Ancora una volta, gente che ride di gusto, che commenta. Segue una frase in francese che non comprendo, sono sincero, introduce qualcosa che ha a che fare con niente poco di meno che Jean Baptiste Moliere. Riparte il growl, una fantasia di tastiera talvolta solista, accompagna distorsioni di chitarra e un’incipiente batteria. Segue “Daguerréotype”, altro breve inframezzo che mi fa pensare, per i cori femminili, alle vecchie fiabe per bambini e che introduce la successiva “Miroir de Chair”. La song parte incazzata poi s’incupisce; un sonaglio introduce qualcuno che piange, nel silenzio. La voce si fa parlata ma tremante, tristissima, accompagnata da una sapiente tastiera e poi risfocia ancora una volta nel growling, tra gli eterei cori femminili. Il grugnito di un elefante e poi una musichetta a mo’ di circo con tanto di banditore. Che storia, non mi sono mai imbattuto in niente di simile prima d’ora. Altro breve intermezzo con “Comptine”, che stavolta ci propone un motivetto fischiettato. A questo punto sto ridendo di gusto da solo, proprio non me l’aspettavo. Segue l’incazzosa “Vieux Pèdophile” che descrive il decadimento umano nella versione forse più atroce e cattiva, quella della pedofilia, che ci viene proposta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta. La successiva “Dark Mummy Cat” parte con una litania cantata che mi rammenta l’Islam. Anche questa come le altre è sicuramente da ascoltare. Come le precedenti, intercala tra le note le sue chicche. Questo filo di perle si conclude con le successive “Omega = Phi” e “Love at Last”. In definitiva, quindi, l’immagine che mi resta dopo l’ascolto di “France”, è quella di un diamante che sfaccettatura dopo sfaccettatura, song dopo song, brilla sempre di più. Ogni singolo pezzo ha qualcosa da raccontarmi, ogni racconto non è mai banale, non c’è qualcosa che non mi abbia stupito. Una pietra preziosa che merita di essere incastonata nella più meravigliosa delle parure regali. (Rudi Remelli)

(Code 666)
Voto: 90
 

Darkened Souls -Tales From the Dark Path

#PER CHI AMA: Melo Death, Black Sun Aeon, Routasielu
Ben poche sono le informazioni disponibili sul web per questa giovane band finlandese, che risponde al nome di Darkened Soulus e la cui nascita è avvenuta ad opera di Jani ed Eke in un pub, nel 2006. Un battito di cuore apre il cd e a seguire delle flebili tastiere in quella che è la intro del cd, prima che “Downfall and Awakening” apra le danze di questo lavoro dal sound di chiara matrice finnica. Come riconoscere questa tipologia di suono? Semplice no: ritmiche abbastanza tirate ma assai pregne di dinamica melodia, ricche parti atmosferiche, secche growling vocals contrapposte ad un cantato pulito, tematiche inerenti la mitologia nordica e il quadro sembrerebbe abbastanza chiaro. La musica del quintetto lappone è carico sicuramente di parti catchy, elementi malinconici come nell’arpeggiata terza traccia “Nothing to the Future”, una sezione ritmica che può richiamare act quali Black Sun Aeon o Routasielu, ma anche qualcosa degli Amorphis più incazzati. Decisamente nulla di originale, anzi alquanto derivativo, ma come da sempre professo, tutto quanto proviene da quella regione d’Europa, ha un suo fascino e finisce per accattivare l’interesse del pubblico grazie a quelle sue ancestrali melodie. Non si discute minimamente la perizia tecnica dei musicisti, magari lascia un po’ a desiderare la produzione che risulta un po’ troppo ovattata, ma non importa più di tanto, perché “Tales From the Dark Path” rappresenta decisamente la colonna sonora di questo mio inizio d’inverno. Andando avanti con l’ascolto, forse quello che stona un po’ troppo è l’utilizzo della voce pulita, un po’ troppo decontestualizzata dalla proposta musicale del combo finlandese; è necessario proprio farci l’orecchio per poterla apprezzare appieno. Poi ben poco c’è da dire, se non suggerire alla band di darci meno dentro con la rutilante batteria che in taluni frangenti rischia di offuscare tutti gli altri strumenti. Per il resto, mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica estrema melodica (non posso definirlo certo death metal) un ascolto di questo cd, speranzoso che ben presto i nostri possano trovare la loro giusta strada e la collocazione che meritano, scrollandosi di dosso le troppe influenze di cui la loro musica fin qui sta patendo. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

mercoledì 28 dicembre 2011

THE PIT TIPS - TOP PICKS 2011

Francesco Scarci

Primordial - Redemption at the Puritan's Hand
*Shels - Plains of the Purple Buffalo
Blut Aus Nord - 777 Sect(s)/777 The Desanctification


Michele Montanari

Maryposh - La luna insegue il sole
Kaileth - Rusty Gold
Mastodon - The Hunter


PanDaemonAeon

Ars Diaboli - Clausura
The Meads of Asphodel - The Murder of Jesus the Lew
Cradle of Filth - Evermore Darkly...


Samantha Pigozzo

Foo Fighters - Wasting Light
Muse - The Resistance
Rammstein - Made in Germany 1995-2011


Roberto Alba

Helheim - Heiðindómr Ok Mótgangr
Ava Inferi - Onyx
Demonaz - March of the Norse


Laura Dentico

The Devil's Blood - The Thousandfold Epicentre
Helheim - Heiðindómr Ok Mótgangr 
Ava Inferi - Onyx


Sofia Lazani

Adele - 21
Lykke Li - Wounded Rhymes
Red Hot Chilly Peppers - I Am With You


Silvia Comencini

Ulver - Wars of the Roses
Mogway - Hardcore Will Never Die, But You Will
Sigur Ros - Inni


Damiano Benato

Poisonblack - Drive
Burzum - Fallen
My Dying Bride - Evinta / The Barghest O' Whitby


Alberto Merlotti

Machine Head - Unto the Locust
Megadeth - Th1rte3n
Cavalera Conspirancy - Blunt Force Trauma


Matteo Del Fiacco

Primus - Green Naugahyde
Mastodon - The Hunter
Limp Bizkit - Gold Cobra


Rudi Remelli

Ceremonial Perfection - Alone in the End
Scar Symmetry - The Unseen Empire
Morton - Come Read the Words Forbidden

 

Terrortory - The Seed Left Behind

#PER CHI AMA: Swedish Death Black Progressive, Opeth, At the Gates
Un bel giorno mi ritrovo una mail della Discouraged Records che mi propone l’ascolto di due band, i Moloken, già inseriti in queste pagine e che presto rivedrete recensiti col nuovo lavoro e questi sconosciutissimi Terrortory. Ebbene, è risaputa la mia curiosità per le nuove band, soprattutto quelle underground e cosi non vedo l’ora di ricevere il pacchetto promozionale dalla label svedese. Ricevuto finalmente il cd, lo infilo nel mio stereo e procedo con la scoperta di una nuova entusiasmante band, appunto i Terrortory (vi prego però, cambiate nome). Nei primi due minuti d’ascolto, devo ammettere di aver temuto di trovarmi di fronte all’ennesima clone band degli In Flames, dopo il quarto minuto ero già conquistato dal sound del quartetto proveniente dalla piccola Skellefteå e già mi bullavo con gli amici di aver scoperto una nuova realtà in campo swedish death melodico. Partendo appunto da una base che richiama gli stilemi classici di In Flames e Dark Tranquillity, con quel sound carico di groove e riff catchy, i Terrortory incantano la proprio audience con eccellenti melodie su un tappeto ritmico granitico, con suoni che via via risultano contaminati da sonorità darkeggianti (stile Fields of the Nephilim), rasoiate black death di scuola svedese alla At the Gates o Dissection, come nella title track, dove accanto ad una epica cavalcata, ecco accadere l’imprevedibile: stoppare la propria furia black per far posto ad un intermezzo acustico di chiara derivazione Opeth, con una suadente voce pulita che va a interrompere l’aspro screaming di Johan, per poi lanciarsi in un eccellente solo, prima della conclusione degna di un album trip hop. Ecco se volete saperla tutta, solo questo pezzo vale da solo l’acquisto di “The Seed Left Behind”, un brano che rappresenta la sintesi perfetta di quello che è il sound vario e controverso di questi ragazzi scandinavi. Con “Concept: Anarchy” si ritorna a sonorità un po’ più canoniche, ma è solo pura parvenza perché i nostri sanno come stupirci e ancora una volta nel bel mezzo del brano inseriscono un qualcosa che esula completamente dalla proposta del combo: insomma la possibilità di rimanere disorientati è assai elevata e cosi se la sensazione di ascoltare black/death pare assai salda nelle prime parti di ogni song, la seconda metà rischia di confondere un po’ le nostre idee, e magari avere l’impressione di ascoltare qualcosa degli Iron Maiden o degli Opeth più acustici o ancora qualcosa di più ruffiano, in stile Scar Symmetry (“The Destroyer” o “I, You”), per poi riessere investiti dalla brutalità di una band, che ha tutte le carte in regola per diventare grande. Si, ho scoperto una nuova new sensation (anche se esiste dal 2000), i Terrortory; vi prego ora di non farveli scappare! (Francesco Scarci)

(Discouraged Records)
Voto: 80
 

domenica 25 dicembre 2011

Morning Dew - Morning Dew

#PER CHI AMA: Black, Wolves in the Throne Room
Cosa c’è di meglio nel periodo natalizio che spararsi nelle orecchie un bell’album di black metal? Nulla direi, tutto il resto decade in secondo piano, feste e consumismi vari, mentre la purezza e l’onestà della musica estrema rimane, per sempre. Se poca attenzione avevo prestato a questo lavoro, complice una copertina che sa più di folk, bucolico o quant’altro, non appena ho infilato l’EP omonimo nel mio lettore, mi sono dovuto ricredere e prendere coscienza che quanto scorreva impetuoso nelle casse del mio stereo era un bell’esempio di black metal assai ricercato, soprattutto nelle linee melodiche/malinconiche di chitarra e nell’uso apocalittico del basso (vero e proprio punto di forza dei nostri), nonché in una screaming efferato, a cura di Federico Tacoli. La seconda traccia, “Il Male di Vivere” si fa notare per quella sua voglia di sprigionare il verbo nero attraverso la lingua italiana, in un esperimento quanto mai riuscito, che ancora una volta scomoda band come gli Spite Extreme Wing e che nuovamente privilegia l’uso di un basso evocativo, che assurge in taluni casi quasi a sorta di chitarra solista. Interessante. Pur non mostrando ancora una perfetta pulizia nei suoni, che talvolta rischiano di sfociare nel caos dell’apocalisse, non posso che non “eccitarmi” nel break centrale della song, che spezza la furia distruttiva del quartetto di Gorizia. “Silent Nature Grief” apre con una parte arpeggiata, prima di abbandonarsi alla violenza (pur sempre controllata) della sua ritmica che vede ancora un break acustico centrale a smorzarne i toni, talvolta fin troppo accesi; ma è poi ancora una volta il fragore del drumming tempestoso, preciso e furente a scatenarsi e a dettare i tempi. Un’altra intro acustica, dai forti toni drammatici, apre la conclusiva “Trascendence”, una song che ha evocato qualcosa dei Primordial nella mia testa, forse per quel suo feeling pagano che solo i maestri irlandesi sono in grado di emanare, ma che ho percepito anche nell’ascolto di questo brano, il più tranquillo (relativamente parlando) dei quattro qui contenuti, ma anche quello più maturo, che in sé racchiude l’epicità degli Agalloch, le atmosfere alla Wolves in the Throne Room e che incarna puramente lo spirito italico, per la fiamma nera. Evocativi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

venerdì 23 dicembre 2011

The Circle Ends Here - Where Time Leaves the Rest

#PER CHI AMA: Post Metal, Post Hardcore, Sludge, Amia Venera Landscape
L’Italia gode di buona salute, ne sono certo: dopo le ultime recensioni di (EchO), Frangar, ma anche quelle di inizio anno di Amia Venera Landscape, mi ritrovo fra le mani un interessante lavoro di post hardcore, che sebbene quattro tracce, riesce sin da subito a conquistarmi. Partiamo però da un po’ più lontano e cioè dall’elegante formato digipack del cd, dalla desolante foto di copertina (meravigliosa) e dalle foto interne. Quanto alla musica poi, dicevo che siamo al cospetto di un five pieces che propone del post hardcore dalle forti inclinazioni romantico autodistruttive, che mi ha colpito fin dal primo ascolto sulla loro pagina facebook. E cosi “Trace the Line” prima e “Shapes to Black” poi, mostrando l’intemperanza tipica dell’hardcore, soprattutto a livello delle vetrioliche vocals smorzato però da un emozionale cantato pulito, esibiscono sicuramente anche un alone oscuro in grado di conferire alla band un feeling decisamente decadente, che alla fine si dimostrerà come il vero punto di forza di questa giovane band, nata infatti solamente nel 2010. Mi piace il sound della band friulana, aggressiva al punto giusto, melodica quanto basta, malinconica abbastanza per bilanciare la propria aggressività con divagazioni post rock, melmosa a sufficienza per definirsi sludge, decisamente intelligente per proporre un sound vario, fresco, frizzante anche nelle due seguenti “Annihilation of Entire Cities“ (dove addirittura sento echi dei Novembre) e nella conclusiva rabbiosa “Nam”, che va definitivamente ad avvalorare la mia tesi iniziale: l’Italia è sul pezzo, gode di ottima salute, almeno a livello musicale, e i The Circle Ends Here ne sono un’ottima testimonianza. Bella scoperta! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

Elend - Winds Devouring Men

#PER CHI AMA: Ethereal Music, Ambient, Dark, Dead Can Dance
Era il 2003: contro ogni aspettativa, il progetto austro-francese più oscuro della scena gotica orchestrale decise di ripresentarsi con un nuovo album, "Winds Devouring Men", distante anni luce dalla produzione passata, seppur in qualche modo vicino al precedente "The Umbersun", il quale già evidenziava un desiderio di abbandonare le tensioni profondamente drammatiche dei primi due lavori ("Leçons de Ténèbres" e "Les Ténèbres du Dehors") facenti parte della trilogia ispirata all'"Officium Tenebrarum", conclusasi appunto con "The Umbersun" e che con esso sembrava aver esaurito il significato del progetto Elend. Invece, nei cinque anni di oblio, gli Elend hanno maturato una nuova perla dal fascino profondamente oscuro, questo "Winds Devouring Men", con il quale sembrarono volersi scrollare di dosso i complicati intrecci classici che avevano ispirato la produzione passata, per donare alle canzoni una leggerezza e una dose di essenzialità che rendono la loro musica più facilmente apprezzabile, pur non intaccando la maestosità tipica delle loro composizioni. E lo si scopre fin dalle note di apertura della bellissima "The Poisonous Eye", cui spetta l'onore di iniziarci all'album più intimista mai creato dagli Elend. L'opera prosegue poi con uno scorrere di quiete melodie che a tratti si tingono di scuro per ritrarre immagini di foschi scenari tormentati, per dar vita ai quali l'ensemble ricorre a passaggi sperimentali dalla forte potenza evocativa e a strumenti percussivi che conferiscono maggiore spessore alle strutture sonore. Echi del passato lirico degli Elend si risvegliano in alcuni momenti nei quali si percepisce la presenza della voce femminile e in particolare la bonus track "Silent Slumber: a God that Breeds Pestilence" ricorda la dolcezza struggente che si poteva catturare nell'album di passaggio "Weeping Nights". Non più confrontarsi con l’assoluto, con l’essenza divina che permea la vita dell’uomo, non più la lotta eterna tra Bene e Male, non più la discesa di Lucifero agli Inferi, bensì un tentativo di aprire le porte della propria intimità per guardarsi dentro e, almeno per una volta, lasciarsi cullare dal fluire intenso dei propri pensieri, lasciarsi accarezzare dalla dolce malinconia delle proprie sensazioni più profonde, senza il timore di scoprirne i lati più nascosti. Nei passaggi melodici di canzoni quali "Under War-Broken Trees", "Away from Barren Stars", "Vision is all that Matters" e "A Staggering Moon", dove la voce maschile si colma di una calma pacatamente sofferta, sento che per la prima volta l'eredità lasciata dai Dead Can Dance è stata veramente raccolta per essere trasformata, rielaborata e rivestita di una nuova eleganza e delicatezza. E' possibile raggiungere la perfezione artistica? Se possibile, allora gli Elend ci sono riusciti, con un album così bello e profondo da far venire i brividi. Letteralmente. (Laura Dentico)

(Prophecy Productions)
Voto: 85
 

Frangar - Bulloni Granate Bastoni

#PER CHI AMA: Thrash, Black, Punk
Mettiamo subito in chiaro le cose: a me non me ne frega un bel nulla se la proposta della band sia politicizzante o meno, cosi come mi è capitato di scorgere qua e là nel web, a me interessano i fatti e in tal caso i fatti sono qui rappresentati dalla musica. Attivi dai primi anni del millennio, i Frangar sono una formazione di Novara, che propone una miscela interessante di thrash black influenzato da una forte attitudine punk, il tutto cantato rigorosamente in italiano. Il risultato è decisamente affascinante: pur sparandoci in faccia, fin dall’iniziale “Conquistatori del Sole” un sound ruvido, diretto, una vera e propria mazzata nei denti, la band piemontese mi conquista fin da subito con la sua proposta essenziale, tirata e graffiante, che per certi versi mi ha ricordato un ipotetico quanto mai impossibile mix tra ultimi Entombed, Janvs e Spite Extreme Wing, coniugando appunto una vena prettamente thrash assai grooveggiante, riscontrabile in tutti i pezzi, con qualche sfuriata puramente black old school. Tralasciando i contenuti propagandisti dell’act italico (che sono a corredo anche di tutto il cd, rilasciato in un elegante formato digipack), mi trastullo con le song azzeccatissime di questo lavoro, che sembrano voler convogliare nel suo interno suoni provenienti da 30 anni di musica estrema, dal punk di fine anni ’70, al thrash stile Sodom/Destruction di anni ’80, con il black di Celtic Frost/Darkthrone, il tutto corredato anche da intrusioni che sembrano estrapolate da qualche film anni ’70 e da inserti propagandistici, che voglio interpretare puramente come una provocazione verso il nostro sistema corrotto. Coinvolgente “Nero Settembre” con la sua bella cavalcata finale, e quel fischio ipnotico di fine brano. Sorrido con il minuto scarso di “Legionario” che ci riconduce alle canzoni degli anni ’40; mi lascio poi investire dal punk selvaggio di “Rinascita”, con la voce del Colonnello, mai esasperata e sempre intellegibile. Si prosegue con la roboante “Alla Frontiera”, prima dell’ennesimo intermezzo, che fa da ponte a “Solstizio di Sangue”, song rabbiosa, che funge da contraerea impazzita (grazie ad una batteria devastante), che comunque mostra un parte centrale più controllata e meno selvaggia. Quatti quatti, si arriva attraverso la furiosa “Trieste Chiama”, la song più black metal oriented, alla conclusiva “Sol Invictus”, inquietante nel suo inizio dove una voce maschile parla dell’”Uomo Nero”, per poi esplodere con quel suo basso vibrante in un pezzo che potrebbe rappresentare il vero e proprio manifesto di questo interessantissimo lavoro: una song che nei suoi tredici minuti incarna l’essenza musicale dei Frangar, punk, black’n’roll, hardcore, cavalcate melodiche, ottime vocals e addirittura contaminazioni post, per quella che è la song più bella e articolata di questo “Bulloni Granate Bastoni” che schiude le porte della mia conoscenza ad un’altra entità interessante del panorama italico. Ora li attendo ospiti in radio. (Francesco Scarci)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 75
 

(EchO) - Devoid of Illusions

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun, Saturnus
Dopo averli visti un paio di volte live (ora li aspetto con gli Agalloch), averli avuti ospiti nella mia trasmissione radio, non potevo esimermi dal recensire il debut album dei bresciani (EchO), che hanno voluto fare le cose in grande sin da subito: prodotti alla stragrande da Greg Chandler degli Esoteric (che sarà anche guest star in una delle song del cd) e registrati ai Priory Recording Studios, in UK, cover art cd affidata ad Eliran Kantor (Testament, Atheist, Sodom, Xerath tra le sue opere), il sestetto nostrano gioca immediatamente tutte le proprie carte vincenti. Il nome deriva da quello della ninfa delle Oreadi della mitologia greca, famosa per essersi innamorata di Narciso, con le parentesi invece ad indicare l’onda sonora che si propaga. Per quanto riguarda la musica invece, ci troviamo di fronte ad un album che potrebbe essere idealmente suddiviso in due parti: una prima metà che si rifà alle sonorità death doom nordiche (e mi vengono immediatamente in mente Swallow the Sun e Black Sun Aeon), cosi pregne di malinconia e dalle forti tinte invernali, caratterizzata da un’inclinazione post rock; una seconda metà invece un po’ più aggressiva, ma entriamo nel dettaglio, perché dopo la consueta intro, ci tuffiamo all’interno dell’(EchO) sound con “Summoning the Crimson Soul”, una song che mostra subito l’attitudine spinta della band di abbinare riffoni di scuola “Meshugghiana” con una spiccata vena atmosferica, grazie alle ottime tastiere di Simone Mutolo, per poi insabbiarsi nel torpore del doom che caratterizza da sempre le uscite dell’etichetta russa. Con “Unforgiven March” emerge anche una certa disposizione dei nostri ad addentrarsi in territori quasi funeral, con un sound nero come la pece, che comunque si mantiene sempre melodico con la voce di Antonio Cantarin veramente superlativa sia in fase growling che cleaning. Cenni dei primi My Dying Bride si mescolano con “Serenades” degli Anathema e frangenti acustici alla Saturnus, per un risultato finale davvero da paura. Sono rapito dalla scorrevolezza dei pezzi, pur trattandosi di un genere non cosi accessibile a tutti i palati e comunque dallo spessore della musica proposta da una band che esiste solamente da fine 2007 e che già mostra doti da veterana. Si prosegue con “The Coldest Land” e ancora emerge forte l’ecletticità di Antonio alle vocals con una performance che rischia seriamente di coinvolgere non solo gli amanti del genere death doom, ma che può richiamare (anzi deve richiamare) fan da generi decisamente più melodici. Tutto suona alla perfezione grazie alla cristallina produzione ma anche al fatto che i nostri sono ottimi musicisti e lo dimostrano sia nelle fasi più movimentate che in quelle più eteree; i giri strazianti delle chitarre si insinuano nelle nostre orecchie e sono certo che non ci lasceranno più e come con il sottoscritto vi ritroverete a fischiettare alcuni giri di chitarra meravigliosi, prima di abbandonarvi ad un finale contraddistinto da un climax ascendente di emozioni, legato ad un altrettanto eccellente lavoro dei due axemen, Simone Saccheri e Mauro Ragnoli. Sono estasiato, non so che dire, il sound degli (EchO) mi ha conquistato e divorato, per quel suo essere in costante movimento, alla ricerca di continue soluzioni per sorprendere l’ascoltatore (ascoltate l’ipnotica progressiva “Internal Morphosis” con il successivo finale dirompente di scuola djent, fantastica). Ancora un altro pezzo veramente elegante ed intelligente è rappresentato da “Omnivoid”, contraddistinto da quel suo incipit sempre estremamente atmosferico ed onirico, che ben presto lascerà posto alla furia dilagante di una splendida ritmica (sempre controllata e melodica sia ben chiaro), con ancora una volta un lavoro magistrale alle tastiere, soprattutto nella sua parte conclusiva dove ancora le chitarre ultra ribassate danno un contributo eccezionale al brano. Sempre più galvanizzato vado avanti con l’ascolto, abbandonandomi alla disperata “Disclaiming My Faults”, una sorta di semi-ballad, dove accanto a dei suoni forse un po’ troppo ruffiani (all’inizio, prima del selvaggio finale) – lo stesso leggasi per la successiva “Once was a Man” -, vorrei sottolineare nuovamente la perizia vocale del bravissimo Antonio, con un’estensione canora notevole. Menzione finale per “Sounds From Out of Space”, dove il cantato catacombale del bravo Greg aleggia nei primi minuti di questo album che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica metal, dal gothic al death, passando da black e doom. Ottimo debut, senza dubbio; se poi consideriamo che sono italiani, non possiamo che esserne fieri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 85