Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Kunsthauch. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Kunsthauch. Mostra tutti i post

martedì 17 gennaio 2017

Kalmankantaja - Kuolonsäkeet

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Sono infine giunto, al buio, circondato da antiche rovine Quechuas, con l'unica compagnia di un freddo gelido, a Pueblo Fantasma, Bolivia, 4690 metri sul livello del mare. Eolo sul mio volto sferza il suo fiato ove scanna runiche rughe intrise nel mio sangue con i suoi invisibili aghi, rune che brillano e pulsano nell’oscurità. Mi chiamo Kalmankantaja e sono un druido votato al male. Non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato fin qui. Dev'essere l'effetto delle troppe foglie di coca che ho masticato per resistere al freddo, alla fame e per riuscire a trascinarlo. Una cosa, però, me la ricordo bene: il motivo per cui sono lì. Scelgo la chiesa, ove accendo, con uno dei miei incantesimi occulti, un arcano fuoco. Lo pronuncio: “Sieluton Syvyys” e le fiamme divampano poco lontano da me. È stata per l’appunto “Sieluton Syvyys”, entry-track strumentale di 'Kuolonsäkeet', dei finnici Kalmankantaja ad evocare questa mia storia: la sua tastiera occulta, geopardata da rare ed arcane parole, ci inizia all’arte con note che da profonde, sulla scia dell’organo, si trasformano, s’innalzano e mi portano con loro nell’alto dei cieli. Accedo all’Empireo tenendo per mano Beatrice ma dimenticandomi di Dante. Ecco che odo i primi lamenti, i primi strazi, della mia vittima. Ebbene, non sono solo, l’ho portato con me. Finora aveva taciuto, sotto l’ipnotico effetto del mate de coca. Ora si sta risvegliando, tossisce. Quindi urla. Non oso immaginare quali oscure creature si annidino lì, nel posto in cui mi trovo, quali lugubri presenze stia per evocare, ma non ho paura. Io non ho paura di niente. Io non temo nessuno. Nessuno al di fuori di me. Sì, al di fuori di me, perché di me ho paura. Di me ho davvero paura: so come sono. Dentro. Tanto gentile e tanto onesto appaio ma chi mi calpesta… muore. No. Non subito: attendo buono per anni, con paziente disciplina. Faccio maturare per anni il mio silente odio proprio come si fa con il buon vino o come fa il più bastardo dei virus e solo quando tutto sembra tranquillo, quando sono certo che tutti abbiano dimenticato, solo allora colpisco. E vado fino in fondo, senza paura di insozzarmi. Calo la mia falce. Scanno, squarto. Ma non lascio mai tracce. Le sue urla. Sono le sue urla a dare inizio a “Yhdessä Kuoleman Säkeet Kohtaavat” lo strazio di uno che viene torturato e che mi chiede disperatamente di non venire ammazzato. Io semplicemente lo ignoro, anzi, dentro di me godo nel prolungarne le sofferenze. Lui per primo mi ha fatto del male. Senza motivo. La batteria scandisce un ritmo semplice, cadenzato, un quattro quarti lento, con brevi incursioni in ottavi, tipico del genere. Convince il gioco di velocità aumentata solo a tratti, dà corpus e magnificenza a questo brano. Le urla di strazio aumentano ed in quest’armonia s’incarnano alla perfezione in uno screaming potente. Bel lavoro ragazzi, ben fatto davvero. Chitarre distorte all’ennesima potenza punzecchiano ed infastidiscono con pure note di sana ultraviolenza la mia vittima che mai smette di lamentarsi, di contorcersi, come se a ripetizione fosse punta da migliaia di vespe mandarinia japonica. Urla. Urla nell'oscurità. Ma no, no, la mia falce non ha ancora mietuto la sua vittima, c’è ancora così tanto tempo e così poche cose da fare. La sua lama brilla perché ancora non ha assaggiato e non percola, lungo il suo filo, lacrime di sangue. Del suo sangue. Punto il mio bastone, mi concentro, rivolgo lo sguardo al cielo, levito ed al mio comando “Ruoskittu Ja Revitty”, lingue di fuoco all’improvviso si animano, s’innalzano e quindi tracciano un complesso e rotondo sigillo sul terreno con al centro la vittima che ancora urla. I suoi pochi stracci vengono divorati dalle fiamme che assaggiano fameliche anche qualche brandello delle sue carni ma niente di più: non vi sono infatti nuovi ingredienti rispetto la precedente track, non percepisco alcun gusto nuovo. Anzi lo schema si ripete. Belli i dieci minuti di "Yhdessä..." ma forse i successivi dieci di "Ruoskittu..." non vanno ad aggiungere molto. Non sono poi così tanto diversi, forse qui l’agonia viene prolungata un po' troppo. Sulle note di “Memento Mori”, la vittima inizia non solo a prendere atto che deve morire ma che la morte è ormai vicina. Mai giocare con i sentimenti di qualcuno. A meno che non si voglia finire… così. Le sapienti pennellate in solo di tastiera di “Oman Käden Teuras” ed i suoi crescendi, sanno risvegliarmi dal torpore, dandomi qualcosa di nuovo da assaporare. Di mio gusto le interruzioni di batteria. La vittima adesso viene tatuata agli occhi con aghi incandescenti. È questo il mio modo per dire: buona la prova di voce. Nuove sonorità e vocalizzi mi colgono impreparato in “Minun Hautani”: bella questa sorta di dialogo tra vittima e carnefice ovvero il gioco di voci pulita e screaming. Di fronte a “Synkkä Ikuisuus Avautuu” non mi resta che lanciare una moneta per decidere le sorti di questo 'Kuolonsäkeet': testa promosso, croce si muore… …ma la mia è una moneta speciale, dedicata a Giano… e Giano si sa… ha due facce. Invece con la mia vittima non sarò così buono: pollice verso. Morte! Morte! Morte! Mai giocare con… (Rudi Remelli)

sabato 14 gennaio 2017

Bròn - Ànrach

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
La Kunsthauch è da sempre sinonimo di sonorità black ambient. Non sono immuni nemmeno i Bròn, one man band scozzese (guidata da tal Krigeist) che con 'Ànrach', arriva all'agognato debut album. Come spesso accade, le band scozzesi, gallesi o irlandesi ricorrono alla lingua celtica per trasmettere il legame profondo con le loro radici antiche e cosi il titolo del cd è una parola gaelica che sta ad indicare l'abbandono. Un abbandono ha sempre una connotazione malinconica che in questo caso si traduce nel mood nostalgico di un disco che include tre lunghissime tracce caratterizzate da un flusso sonico mid-tempo interrotto da brevi sfuriate black, con le chitarre venate di quell'aurea epica in stile Windir. A differenza della mitica band norvegese però, qui ci sono molte più tastiere, con una certa predominanza quindi di lunghi interludi atmosferici che evocano inevitabilmente il conte Grishnackh (alias Burzum). Ecco in soldoni la opening track che dà anche il titolo al disco. Con "Lutalica" (parola di provenienza serbo croata) non ritroviamo troppe variazioni al tema, se non una seconda parte del brano che si avvicina sempre di più all'ambient e che forse farà storcere il naso agli amanti del black più puro, ma tranquilli perché lentamente la song cresce in intensità e pure in velocità, con un finale furibondo. Tuttavia il disco stenta a rapirmi, forse perché troppo statico o dotato di suoni di synth troppo noiosi e scontati. Stancamente si arriva all'ultima "Tipiwhenua" (parola stavolta maori), il cui inizio tastieristico di certo non mi aiuta nella valutazione complessiva di un disco lungo, troppo lungo, ridondante e che non apporta nessuna novità in un genere di nicchia come quello dell'ambient black, in una song comunque avara di sussulti. 'Ànrach' non è un disco da bocciare, in quanto il mastermind di Edimburgo sa il fatto suo, però non è neppure un album che mi sento di consigliare a cuor leggero. Dategli un ascolto approfondito prima dell'acquisto, rischiereste di utilizzarlo per fermare un tavolo traballante. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch - 2016)
Voto: 60

mercoledì 4 settembre 2013

Mal Etre - Medication

#PER CHI AMA: Black Ambient Shoegaze Dark
Avevo incontrato gli svizzeri Mal Etre in occasione del loro primo album, “Torment” e li ritrovo in occasione del loro secondo lavoro, “Medication”, facente parte della “99 Screams Series” della russa Kunsthauch Productions, lavori stampati elegantemente in digipack, limitati a sole 99 copie. Fiero di far parte di questa ristretta elite di fortunati possessori di questa release, metto nel mio lettore il cd e mi lascio ancora una volta guidare nel malato mondo di Nocturnalpriest in un altro dei suoi psicotici viaggi. La proposta della one man band del cantone di Vaud, si presenta assai personale, anche se quella lacerante violenza che saltuariamente trapelava dalle note del primo lavoro, è stata riposta in soffitta, lasciando posto ad un sound già maturo, oscuro e che, come citato nel flyer informativo, suona molto in stile punk. Il tutto si evince dall'ascolto delle prime due song, che poggiano la loro struttura su una tetra musicalità, richiamando pur sempre nel loro avanzare, lo shoegaze degli Alcest. Il basso è l'elemento predominante del disco e l'inizio di “Manicomium” lo conferma: il suono pulsante dello strumento rappresenta infatti l'elemento su cui poggia l'intera ritmica dell'act elvetico, con delle vocals (pulite e scream) che sono al limite del delirio, per non parlare poi dell'atmosfera malsana che aleggia in questa song in particolare, ma in generale in tutto il lavoro. “Brainfood” sembra quasi un omaggio alle sonorità dark dei The Cure, cosi come “Conspiracy Against Life” rappresenta un altro bell'esempio di quanto abbia avuto un grande significato l'influenza di Robert Smith e compagni nella crescita musicale dei Mal Etre. Cori litanici e sprazzi di metallo vero, completano quella che forse è la mia song preferita. Con l'enigmatica “Nightmare” si continua a vagare nell'incubo di Nocturnalpriest: desolazione, freddo e paura sono le sensazioni che emergono forti dall'ascolto di questo pezzo. “Dernier Voyage” è forse l'ultima montagna da scalare con i suoi 11 minuti di musica in cui si palesa per la prima volta la componente black. Le chitarre, elettriche e acustiche, avanzano in una straordinaria amalgama di suoni maledettamente malinconici, su cui irrompe lo screaming del vocalist svizzero e dove emerge più forte l'influenza dei gods francesi Alcest. Ancora un temporale, ancora gocce di pioggia che cadono, cosi come in occasione della prima release, incupendo un'atmosfera già di per sé assai pesante. Con la title track si riprendono i suoni psichedelici delle prime tracce; per di più fa capolino anche la voce di una fanciulla che si affianca a quella del mastermind. “Schizoid” è la degna conclusione di questo album: malata ai massimi livelli, combina lo screaming con evocativi cori, su un tappeto sonoro psichedelico noise ritualistico, che conferma la qualità non indifferente della seconda opera targata Mal Etre. Definitivamente intriganti. (Francesco Scarci)

mercoledì 24 luglio 2013

Kalmankantaja – Kalmankantaja

#PER CHI AMA: Black/ Drone Sunn O))), Wolves in the Throne Room, Bedeiah
Il duo in questione arriva dalla gelida Finlandia e porta con sè una forma artistica molto interessante e particolare, una sorta di catarsi psichedelica scritta in tinte di nero, una forma di black metal oscurissima, visionaria, intimista e carica di (ir)reale misantropia. Il cd omonimo non è altro che una compilation che raccoglie i primi lavori dell'act di Hyvinkää, di cui abbiamo comunque voluto dare un tributo a tutte le cover art, oltre che quella che raccoglie tutti i brani.


Dei 3 cd che ci sono pervenuti, "Elama on Kuoleva Huora" è il primo demo di questa band con 4 brani per un totale di circa 32 minuti convogliati per due quarti sulle coordinate stilistiche di Burzum ma molto più laceranti, spirituali e sepolcrali, melodici e cupi come i migliori My Dying Bride, freddi ma non senz'anima; mentre nella seconda metà di questo demo dimostrano una capacità interpretativa dei sentimenti più profondi e tristi degna di nota. Il terzo brano dona il titolo all'intero lavoro e ci offre una veste molto diversa e folklorica dei Kalmankantaja giocato su di un arpeggio di chitarra sofferto, pulito e avvolgente mentre "Katku Kärsivä Valkeudesta" è un brano dalle tinte forti senza via d'uscita esasperato nell'intrecciarsi di drones funerei e nebbiosi, contornato di screaming lancinanti e disperati. Un biglietto da visita stupendo per chi ha imparato ad amare band come Wolves in the Throne Room, di cui questi Kalmankantaja potrebbero essere cugini se solo non prediligessero ritmi più lenti e doom.


Il secondo cd dal titolo "Tekopyhyyttä Pyhässä Temppelissä" (che tradotto significa: L'ipocrisia nel santo tempio) riparte laddove il demo si era egregiamente fermato e fa emergere un lato sperimentale ancora più elevato portando a due soli pezzi il contenuto di questo lavoro, molto lunghi e drammatici. I suoni sono squisitamente underground molto ricercati e figli di quel black metal iperboreo e zanzaresco ma rivisitati con gusto e un pizzico d'avanguardia sonica che li spinge oltre. Ascoltate gli screaming del brano omonimo dell'album e ditemi se non meritano qualche riflettore in più. I tredici minuti abbondanti della successiva traccia partono con un mid tempo attraente, sempre funerei e tetri, mai uno spiraglio di luce, interpreti convincenti di un'oscurità vissuta, una macabra forma d'arte nera. Il suono di Kalmankantaja non vive di qualità tecniche ma espressive al punto che durante l'ascolto si ha l'impressione di essere di fronte ad un ibrido fra black metal, psichedelia, shoegaze e dark ambient.


Il terzo cd dal titolo più semplice "III" porta tre brani divisi nei titoli di part I, part II e part III a sottolineare quasi una forma di concept album, le cui tracce sono divise ma potrebbero far parte benissimo di un unico lunghissimo brano decadente e sciamanico, un lungo scorrere di emozioni nere e ombre che rendono per certi aspetti unici questi due musicisti finlandesi. La musica affila le armi e nel primo brano il sound dei Wolves in the Throne Room fa da maestro; in realtà i Kalmankantaja hanno molto in comune con la band americana anche se spostano sempre il tiro verso un approccio più sperimentale e ancora più sotterraneo con un'attitudine gelida alla Sunn o))). Il duo predilige i testi drammatici, estremi, depressivi e rivolti alla forza e maestosità della natura. La musica rispecchia i testi esageratamente, portando con sè una sensazione di vuoto profondissima e una disarmante vena di solitudine che affascina sempre di più ad ogni ascolto. Tre lavori di non facile assimilazione ma che una volta appresi e compresi possono dare molte soddisfazioni alle vostre orecchie e ai vostri stati d'animo. Ascoltare per credere. Non tutto il nero vien per nuocere...(Bob Stoner)

giovedì 8 dicembre 2011

Древо - Величие

#PER CHI AMA: Pagan Black, Summoning
Non potete immaginare quanta fatica abbia fatto per decifrare il nome del gruppo, il titolo dell’album e riuscire, invano, a cercare informazioni a proposito di questa band russa. Il nome dell’ensemble, costituito dal solo Jaromir, significa “Albero”, ma il fatto di essere scritto in cirillico non aiuta di certo, cosi come pure il suo sito internet, completamente scevro di qualsiasi tipo di notizia biografica. Quindi mi appresto a recensire questa release, come se fossi bendato e affidandomi al mio solo senso uditivo. L’apertura, affidata alla title track, ci dice immediatamente che ci troviamo all’interno del panorama ambient-medieval, con suoni di un’epoca passata che echeggiano nelle casse del mio stereo e ci riconducono indietro nel tempo di un migliaio di anni. L’act di Nizhny Novgorod ci prende per mano e conduce a corte di castelli di principi o re del passato, con menestrelli e giullari ad allietare i nostri momenti. E cosi, ecco arrivare “Созидание”, che con il suo suono ipnotico ma allegro incedere, mi rilassa e rende l’ascolto di questo strano cd estremamente piacevole. Mai abbassare la guardia però, perché “Ледяная Явь” ci catapulta invece in uno scenario più black metal oriented, anche se completamente strumentale, con il grosso difetto di affidare la ritmica all’utilizzo di una fredda e sterile drum machine. Il risultato non è certo dei migliori anche se la melodia di fondo sarebbe assai gradevole, con un finale in completo stile Burzum (periodo ambient). Uno screaming disumano apre “Воля-Вольница”, risvegliando nella mia intorpidita memoria, gruppi che non sentivo da una vita, come gli austriaci Summoning o gli spagnoli Elffor. Il sound risulta alquanto caotico, con un black metal come elemento portante, accompagnato da una serie di orpelli folk che dovrebbero mitigarne l’estro selvaggio. Una registrazione ovattata e un po’ grezza, non certo ideale per questo genere di sonorità, ne rovina ahimè l’esito finale. Poco male perché invece la successiva “Рассвет” presenta una registrazione del tutto differente, il che mi lascia pensare che forse questo lavora possa rappresentare una sorta di compilation. Di qualunque cosa si tratti, e questo non mi è dato di saperlo, la musica dei Drevo (la trasposizione inglese del nome della band) è un coacervo di black pagano, ambient e folk che potrà solleticare i palati di chi ama questo genere di sonorità; per gli altri credo si tratti di una proposta abbastanza ostica, soprattutto perché cantata in russo con una registrazione altalenante e con delle composizioni altrettanto altalenanti che potrebbero si interessare gli amanti del black e far sorvolare chi ama l’ambient e viceversa. Decisamente una release non facile, anche se per il sottoscritto, dotato di una certa (ampia direi) apertura mentale, questo “Величие” non è affatto malaccio. La cosa su cui sicuramente lavorerei è la sezione ritmica, sostituendo la componente glaciale della drum machine con un batterista in carne ed ossa; in secondo luogo darei una maggiore omogeneità nella produzione e cosi pure perfezionerei la cura nei particolari e la pulizia dei suoni. Per finire, adopererei qualche miglioria a livello vocale; letto cosi sembrerebbe che l’album sia da buttare, invece devo essere sincero e dirvi che dopo tutto mi piace, soprattutto se impegnato in letture a sfondo fantasy. Ultima nota: a chiudere il cd c’è una cover dei Carpathian Forest della magnifica “The Northern Hemisphere” che sancisce la bontà e la genuinità di un lavoro, senza ombra di dubbio, destinato a rimanere nel mondo dell’underground più recondito. Misteriosi! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

domenica 27 novembre 2011

All the Cold - One Year of Cold

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum
“One Year of Cold” (letteralmente “Un anno di Freddo”) è una compilation che racchiude i migliori brani del duo di Murmansk costituito da Winter e Nordsjel, contenuti negli innumerevoli split rilasciati in passato. Quel che balza subito all’orecchio sin dall’iniziale “Cast Winter” è l’impronta “Burzumiana” assunta dalla band russa: atmosfere gelide, in cui è il solo vento siberiano a soffiare e pungere il viso; melodie malinconico/depressive, figlie di un underground (quello russo) pullulante di realtà funeral doom; un incedere lento, quasi ipnotico per il ridondante enunciare delle stesse ritmiche quasi a voler ricalcare costantemente uno stato di disagio perenne. Non so esattamente da dove nasca questo malumore di fondo, questo senso di inquietudine che avvolge tutte le band provenienti dall’ex grande Unione Sovietica, so solo che c’è un qualcosa che le accomuna tutte, ossia il rifiuto del mondo che li circonda e che li spinge a vomitare (qui non solo in senso figurato, dovreste sentire la voce del vocalist, nelle sue sporadiche apparizioni) tutto il proprio dissapore, odio e disperazione nei confronti della vita e della società. La seconda traccia vede proprio l’affacciarsi del vocalist nella sua veste dannatamente oscura e malvagia con uno screaming spaventosamente disumano mentre la musica continua ad essere maledettamente atmosferica, melodica e capace di dipingere paesaggi invernali, ma senza montagne o foreste, solo il camminare nella neve ghiacciata in mezzo al nulla, con la sensazione di quel suono ovattato, attutito, quel silenzio in grado di stordire per l’enorme rumore che fa. Ecco le innumerevoli sensazioni che vengono sprigionate da questo “One Year of Cold”, che oltre a descriverle in musica, le narra anche all’interno delle sue liriche. Il senso di disagio contagia anche me, mi aliena da tutto e da tutti, soprattutto nella quarta desolante “New Day Without Me” e nella successiva “Message of Silence Space”, in grado di lasciarmi una profonda sensazione di disperazione al termine dei suoi infinitamente ripetitivi e strazianti lunghissimi minuti (sedici e undici rispettivamente) fatti di suoni ambient, decisamente lugubri e avvilenti. Non c’è luce, non c’è positività, non v’è alcun briciolo di speranza nei nove brani contenuti in questo lavoro; e ciò che affascina maggiormente è che non ci troviamo al cospetto della solita band funeral doom da cui aspettarsi realmente questo genere di sentimento, appesantito solitamente da una ritmica soffocante e pachidermica. Qui gran parte dello spazio è lasciato ai sintetizzatori mortificanti, a quei tocchi di pianoforte tristissimi che lasciano solo segni indelebili nel più profondo dell’anima, ferite che con somma difficoltà si rimargineranno. Sono cresciuto con la musica di Burzum e da poco la sto rivalutando, ma qui siamo al cospetto di due grandissimi artisti che riprendendo le sonorità del conte, rielaborandole con il feeling polare tipico russo, hanno rilasciato una testimonianza meravigliosa della loro genialità; da sottolineare tra l’altro che le ultime due splendide tracce sono inedite bonus track, cariche di un feeling autodistruttivo senza precedenti. Peccato solo che una simile release non possa essere apprezzata da un pubblico numeroso e sia, ahimè, destinata ad un esiguo gruppo di anime dannate che, come il duo Winter & Nordsjel, è tormentato nel corpo e nell’anima. Io lo sono e non posso far altro che celebrare questo lavoro e custodirlo gelosamente nella mia collezione di cd speciali. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85
 

martedì 4 ottobre 2011

TOBC - Heart of Darkness

#PER CHI AMA: Black Depressive, Burzum
La politica della Kunsthauch Production deve sicuramente viaggiare su due imprescindibili presupposti: il primo è che ogni band deve essere formata da un solo membro che suona tutti gli strumenti; la seconda è che la fonte di ispirazione deve essere assolutamente quella del sempre verde Burzum. I polacchi TOBC, nome quanto mai brutto, dietro al quale si cela il polistrumentista Dominicus, rispettano fedelmente i paradigmi voluti dalla label russa e rilasciano il debutto “Heart of Darkness”. Introduzione affidata a delle spettrali tastiere che non possono non richiamare alla mente, la band del rinato Conte e poi attacco chitarristico affidato a delle zanzarose, quanto mai ripetitive chitarre, che giocano sul medesimo riff per i successivi sei minuti della traccia, mentre lo screaming del vocalist impressiona positivamente per la sua timbrica secca e mai eccessiva. La successiva “Visions”, contraddistinta anch’essa dal medesimo ossessivo riff, è accompagnata anche da delle tastiere che, impercettibilmente, contribuiscono a rendere il tutto più digeribile. Un alone di mistero e suicidio diffuso nella vena degli Xasthur, ammanta l’intero lavoro, che pur non godendo di una perfetta produzione, e di certo, non facendo dell’imprevedibilità il proprio punto di forza, ha comunque la capacità di non stancare. Le atmosfere malefiche, l’aura maligna e un’energia negativa pervadono di cupa disperazione l’intero album, cosi come le liriche, che affrontano i classici temi del genere: tristezza, odio, ma non solo, perché differenti emozioni ed esperienze, vengono narrate al’interno di questa conturbante release. Ancora echi di Burzum nei lunghissimi tredici minuti della title track, dove pure il fantasma minaccioso dei Darkthrone volteggia sinistro sulle nostre teste, pronto a scatenare la guerra. Il ritmo in realtà non si rivela affatto veloce e la song si assesta stranamente su un mid tempo estremamente pregno d’atmosfera, ancora a richiamare i bei tempi andati di “Det Som Engang Var”. Mi piace, nulla da dire, anche se forse ero più avvezzo a simili sonorità una quindicina d’anni fa, ora le trovo un po’ troppo sempliciotte e prive della benché minima fonte d’ispirazione o originalità. La mia non vuole essere tuttavia una stroncatura ad un lavoro interessante, che di certo farà la gioia degli amanti del genere, non certo la mia, alla costante ricerca dell’album perfetto, originale, forse alieno. Con i TOBC accontentiamoci di riassaporare il black depressivo dello scorso decennio, in attesa magari che la one man band polacca non possa intraprendere una strada sperimentale come fatto dagli Shining; staremo a vedere, nel frattempo, una chance diamola a questo “Cuore dell’Oscurità”. Tenebrosi! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 65

sabato 1 ottobre 2011

Karg & Andrarakh - Traumruinen

#PER CHI AMA: Depressive Black
Dal gelido inverno di cuori assiderati, “Traumruinen” si fa strada lentamente verso antri di immaginazione buia e universale. Mai combo di artisti fu più riuscita. Mai connessione d’intenti più azzeccata. “Traumruinen” mi riporta ai momenti di squisita solitudine sonora del progetto Nortt, altra incarnazione estrema in toto (e non solo a livello musicale, a quanto è dato sapere). Ma affrontiamo l’album a livello tecnico. Innanzitutto è possibile definire il genere in questione come puro depressive-black, anche se non mancano stravaganze epiche e riff sostenuti come nella cara tradizione norvegese a cui ci si riferisce. Le atmosfere che si respirano in quest’opera elevano tale tipologia di musica da semplice prodotto di un ben definito underground a qualcosa di più raffinato, stilisticamente superiore alla media. Magistralmente ispirate, le tracce si sviluppano coerentemente in un sound che mescola visioni celesti e melanconie abissali, dando l’idea di un debole equilibrio di opposti, testimoniato alternativamente da tastiere sognanti da una parte e dalle distorsione delle corde da un'altra. La base è il buon vecchio norwegian black degli albori, non c’è dubbio, reinterpretato secondo canoni estetico-musicali centrati sulla malinconia, la perdita di un magico mondo antico e, di riflesso, l’odio verso tutte quelle nuove tradizioni/religioni responsabili dell’irrimediabile allontanamento della terra del mito. La traccia che più esprime questo sentimento di mancanza di un passato fantastico è certamente la più evocativa: “Wolkenpoesie”. Credo vi siate già fatti un’idea delle liriche. Slow-black con inserti di tastiera e chitarre non troppo pesanti come ci si aspetterebbe fanno della parte di Karg una piccola perla da assimilare assolutamente. A tutto ciò Andrarakh aggiunge tonalità profonde e una registrazione vecchio stile (io la chiamo ‘alla lontana’ per via dell’impatto vocale distante). “Traumruinen” è un’ immensa, triste, potente preghiera rivolta alla malinconia del passato. (Damiano Benato)

giovedì 22 settembre 2011

Au Sacre des Nuits - Anti Humain

#PER CHI AMA: Black/Ambient/Funeral/Doom, Pensees Nocturne
Glaciali, mortiferi, ipnotici, depressivi, neri come la pece, apocalittici come poche band sentite nell’ultimo periodo. Ne sono certo, questa è una delle nuove interessanti band provenienti dall’Est Europa, non posso sbagliarmi. E invece no, gli Au Sacre des Nuits vengono dall’inusuale Brasile (inusuale per questo genere intendiamoci), cosi come qualche tempo fa gli Helllight mi avevano sorpreso, anch’essi brasiliani, anch’essi sotto etichetta russa. E allora forse le label della vecchia repubblica sovietica ci vedono lontano e vanno a pescare oltre oceano e, che dire, quelle che abboccano sono interessantissime realtà provenienti dall’underground. La musica della band è frutto della mente malata di Necrophelinthron e i brani (sei e lunghissimi) contenuti in questo “Anti Humain”, non sono altro che gli incubi dell’unico componente dell’ensemble brasilero, che ci trascina con veemenza e angoscia, all’interno delle proprie paure, soffocandoci con ambientazioni oscure, harsh vocals, melodie soffuse, graffianti e seducenti riffs presi in prestito dalla tradizione norvegese (ancora una volta Burzum docet), passaggi doomish (ricordate i primi ossessionanti Void of Silence), vocals femminili e quant’altro. Insomma all’interno dei 50 minuti di questa release c’è davvero di tutto, anche se non credo sia del tutto accessibile a chiunque ascolti musica metal in genere. Ecco, vi suggerisco di avvicinarvi con estrema cautela a questo disco, non vorrei mai che la ferocia black di “Le Prisme De Apollon Captivé” possa seriamente danneggiarvi i vostri padiglioni auricolari o l’ambient della successiva “La Pulsion Dévore” rischi invece di annoiarvi. Con la terza traccia e la lunghissima “Sur Résilience”, la one man band sudamericana potrà avvicinarsi a chi ha ultimamente apprezzato i lavori all’insegna del shoegaze/post rock di Alcest o il black d’avanguardia dei Pensees Nocturne, il tutto però penalizzato da una registrazione non proprio all’altezza. Strafregandomene anche questa volta dell’assenza di una registrazione cristallina, mi lascio sedurre dalla brutalità dei suoni qui contenuti, che spesso finiscono per miscelarsi con dolcissimi tocchi di pianoforte o campionamenti vari. Sarà una mia impressione, ma chissà perché le mie orecchie finiscono per percepire anche echi dei primissimi Katatonia nelle linee di chitarra di questa inaspettata band che di sicuro non è cresciuta sulle spiagge assolate di Copacabana, ma che forse ha vissuto piuttosto la povertà tipica delle favelas della periferia delle grandi metropoli brasiliane, riportando poi tutti i propri demoni nei solchi di questo deviato lavoro. Che dire di più, il funeral dei Au Sacre des Nuits ha saputo conquistarmi e ridarmi ancora interesse per un genere che nell’ultimo periodo sta rischiando seriamente il sovraffollamento. Decadentisti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75
 

venerdì 16 settembre 2011

Sieghetnar - Endlösung

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
La Kunsthauch Production si sta rivelando sempre più un’ottima etichetta, dalle scelte estremamente oculate anche se costantemente indirizzate al mondo dell’underground più profondo. Ci addentriamo oggi nel fitto sottobosco germanico andando a scovare la creatura misteriosa dei Sieghetnar, capitanata dal folletto Thorkraft, che ripropone per la label russa, il demo del 2008, intitolato “Endlösung” (che insieme al debut album “Verfallen & Verendet”, sono le uniche opere della band a contenere parti cantate). Si tratta di cinque capitoli raggruppati in un’unica song di 29 minuti di musica ambient nel suo incipit di otto minuti, cosi come il buon vecchio Count Grishnackh, insegnò ai suoi discepoli nel lontano 1992, con il pezzo “Tomhet”, estratto da “Hvis Lyset Tar Oss”. Sto ovviamente parlando dei Burzum, per chi non lo avesse capito, e proprio traendo spunto dalla band norvegese e dalla tradizione nordica in genere, la one man band tedesca prosegue il proprio cammino, proponendo successivamente delle parti acustiche che per un po’ mi lasciano intendere che il cd non troverà mai uno sfogo eclatante nella sua proposta. Non faccio in tempo a terminare questo pensiero, che l’album esplode nel bestiale screaming di Thorkraft, che tra guaiti in stile Varg Vikernes e cleaning vocals, vomita tutto il proprio odio nei confronti nel mondo e dell’umanità, su una base estremamente atmosferica, con chitarre in grado di condurci alla disperazione più totale. Terminata la fase suicidal depressive, l’act tedesco si abbandona nei suoi conclusivi nove minuti ad altri vaneggiamenti ambient, contrappunti cibernetici e qualche sample elettronico. Francamente non sono un amante delle sonorità ambient, tuttavia una durata assolutamente non eccessiva della release, spezzata dal black crepuscolare nella sua parte intermedia, mi ha fatto apprezzare non poco “Endlösung”. Certo, non sarà l’album che metterò in auto la mattina per andare a lavoro, però in qualche serata particolarmente malinconica, questo lavoro sarà in grado di darmi il colpo di grazia definitivo. Plauso finale per le immagini in chiaro scuro della cover cd e del booklet interno. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

sabato 25 giugno 2011

Zifir - Protest Against Humanity - English

#FOR FANS OF: Black mid-tempo, early Nachtmystium, Burzum
Here's an album that you feel compelled to listen in full, a one-way trip to face alone through nine dying stations of pure hypnotic sound. It's not a far-fetched metaphor. The whole work is really designed as a journey through the darkest (and pure) places of the soul. It starts with an instrumental, slow and emotional intro, changed to a permanent abandonment of innocence places to soak slowly into a more hostile, bitter and biting sound. The "mosquito" guitars is the real ruler of this universe of sound. They permeate every tone with the same frequency with which they penetrate into the brain of the listener. They buzzing indiscriminately in slow and fast, violent and melancholy steps, at times recalling the early Nachtmystium, identically doped by this swarming omnipresence. Zifir absorb elements from many black metal bands (I affectionately call this spiritual slow black), able, however, to experiment and create an interesting work, demonstrating skills and professionalism in the composition of the tracks, which, while proposing an hypnotic background, do not show never repetitive. I do believe that it is necessary to have an early knowledge of this type of metal, otherwise it is impossible to fully appreciate it and are payable only a bunch of instruments and suffering voices. The result is something else. These bands create synergy and you can not say, "Hey, listen to this refrain". The refrain is not there, don't exist. Each song must be heard in full in its evolution. Only thus you can understand, for example, because the slower and pseudo instrumental tracks are "Uncertain", "The Poison From My Veins" and "Goat's Throne", respectively the first, fifth and last. "Goat's Throne", in particular, is a summary of the soul of the album. Eight minutes of inhospitality, where browsing gothic keyboards, clean vocals alternated with screaming and laments in Burzum's style. The only flaw, from my little point of view, the title of the album, which fortunately does not have a title track. There can not be a protest against humanity, if this same work start from the denial of what human society entails. Just as every work of art of mankind, whatever is the message intends to convey, would have no reason to exist if that meant not being transmitted. I greatly appreciate the quality of this music, but the too much extremes of lyirics at times seems superficial and stereotypical. This does not mean the quality of an album like "Protest Against Humanity", and that it embodies: a wild, carnal epiphany. All on the rise. (Damiano Benato - Translation by Zifir)

(Kunsthauch)
Voto: 80

domenica 5 giugno 2011

Hopeless - Elements

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Funeral Doom, Shining
“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente… Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Queste frasi, dal senso così tremendo e oscuro, sono scolpite sopra la porta dell’Inferno, che Dante si appresta a varcare ne “La Divina Commedia”. E facendo proprio un confronto con l’opera del poeta toscano, mettendoci all’ascolto di “Elements” degli spagnoli Hopeless (appunto “senza speranza”) e del loro catastrofico suicidal black metal, le sensazioni che emergono sono le medesime di quelle descritte nel più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. L’aver scomodato Dante per la recensione di questo cd, non deve trarvi però in inganno, perché ahimè non ci troviamo al cospetto di una cosi maestosa opera d’arte, anche se la musica proposta dalla one man band di Malaga è molto buona, ma credo che ai più potrà risultare di difficile fruizione. Eh si, perché il sound mortifero proposto da Lvcciferian e dai suoi Hopeless, è un black ambient dalle pesantissime tinte depressive/suicide che emergono fin dall’iniziale “March 13th” e perdurano fino alla conclusiva title track (tralasciando l’ultima inutile cover, da “Il Padrino” “The Ghostfather“). A dispetto di una produzione non proprio all’altezza, la musica dell’act iberico sconvolge i nostri sensi con composizioni dal forte impatto emotivo, con ambientazioni nere come la pece, squarciate da dannate litanie angoscianti. La ritmica non è mai veloce, semmai assai ripetitiva; tuttavia la noia non finisce mai per intaccare il nostro ascolto, nonostante le lunghe durate (sugli 8-9 minuti) di alcune tracce. Non mi stancherò di ripetere che quello che abbiamo fra le mani è un cd di funeral black doom apocalittico, di faticherà a trovare molti consensi; tuttavia mi sento di poter consigliare l’ascolto di questo lavoro anche a chi non è cosi abituato a questo genere di sonorità, perché potrebbe risultarne piacevolmente sorpreso. Sia chiaro che “Elements” non è un disco da poter gustare in auto o in compagnia di amici, ma da assaporare chiusi nell’oscurità della propria camera, magari con un paio di candele accese. Sofferente, malato, sconfortante: devo ammetterlo, a me la musica degli Hopeless piace molto e vi invito a dargli un ascolto; avvicinatevi con cautela però! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75

venerdì 3 giugno 2011

Astral Silence - Astral Journey

#PER CHIA AMA: Funeral Doom, Cosmic Black Metal
Ancora una volta Svizzera (come per i Mal Etre), ancora una volta viaggi spaziali come era successo per i compagni di scuderia Spuolus, ancora una volta una one man band, questa volta guidata da Quaoar. La proposta che oggi fa visita al mio stereo è il full lenght di debutto degli Astral Silence, che arriva a convincermi che il paese alpino non sia importante per il cioccolato o per alcune grandi band (Celtic Frost, Samael, Coroner), ma che ci sia realmente un fermento continuo nell’underground che cresce e spinge per farsi conoscere. Certo, c’è anche da dire che non tutte le ciambelle escono col buco, ma questo è un altro discorso che magari affronteremo nel corso della recensione. Partiamo col dire che “Astral Journey” è uno di quegli album di difficile approccio, ma devo ammettere che sono quelli che poi talvolta regalano anche le maggiori soddisfazioni. Si apre con la classica intro ambient (peccato che duri “solo” poco più di dieci minuti). Già messo a Ko dalla ipnotica, quanto mai inutile apertura, finalmente riecheggia nelle casse del mio stereo, la musica del factotum Quaoar e del suo cosmic black metal (definizione che sta prendendo sempre più piede ultimamente) che quasi istantaneamente, guida la mia mente verso il sound dei conterranei Darkspace. Vuoi per la definizione del genere, vuoi per i punti di contatto che accomunano le due band, ossia quella ripetitività di fondo che lacera le nostre menti, effettivamente le due band finiscono inevitabilmente per assomigliarsi. Non voglio bollare gli Astral Silence come dei meri cloni dei ben più famosi colleghi, però questo finisce per inficiare un po’ il mio voto. Ci prova “Hydra” a risollevare le sorti di un album che rischia di finire nel dimenticatoio dei cd perduti. Per carità nulla di innovativo o personale, però il suicidal black degli Astral Silence si lascia ascoltare piacevolmente, tuttavia senza impressionare o senza spingersi verso lidi sperimentali, in quanto il riffing non si sforza di cercare soluzioni alternative e finisce per continuare a riproporre lo stesso giro di chitarre per l’intero pezzo. Quello che finisce poi per il placare il mio desiderio sacrificale, sono quelle ambientazioni ricche di tensione, che comportano un totale senso di rassegnazione e abbandono a chi le ascolta: tutto ciò emerge alla grande nelle conclusive “Dysnomie” (il mio brano preferito) e “Oort”, dove si respira tra l’altro un fetido odore di morte. Il funeral doom, con il suo impietoso riffing, le vocals quasi sussurrate, le cupe tastiere, finisce per prendere il sopravvento, scaraventandoci in un intenso stato di terrore. Il respiro si fa più affannoso e la visione più distorta, man mano che l’incedere della song si fa più che mai minaccioso; l’impressione che mi rimane alla fine di questa bieca danza della morte è che la sua mano abbia afferrato la mia gola per condurmi insieme a lei negli inferi. Mi risveglio, sono sudato, realizzo che è stato solo un incubo, lo stereo ormai si è spento in automatico e il cd degli Astral Silence è terminato, ma quel senso di angoscia perdura ancora nel mio animo e chissà ancora per quanto durerà. Destabilizzanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

Mal Etre - Torment

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal, Funeral Doom
Come riporta il booklet del cd, questa è una raccolta di tracce di un viaggio personale, che riflette momenti di isolamento e crisi personale dell’individuo, Nocturnalpriest, che si cela dietro il nome di Mal Etre. La one man band svizzera finalmente, dopo 4 demo rilasciati a partire dal 2007, fa uscire per l’attivissima Kunsthauch, questo cd di sette pezzi che fa del suo titolo, il proprio inno… il tormento, si. Ora capisco per quale motivo viene spiegato il perché della nascita dei brani, poiché fin dall’iniziale “Vie Impure”, non posso esimermi dal constatare che proprio questo sentimento, cosi straziante e lacerante, costituisce la base delle sonorità di questo oscuro lavoro, anche se spesso ci si abbandoni in selvaggi tripudi alla malvagità. Dopo l’adattamento al corrosivo sound della lunga opening track, mi lascio cullare dalle soavi note di “Forest”, prima di immergermi nell’angosciante trip creato dalla tenebrosa “My Funeral”, macigno ipnotico di funeral doom miscelato ad ambientazioni che mi hanno riportato alla mente gli ahimè disciolti Decoryah, forse prima fonte di ispirazione dell’act alpino, insieme allo shoegaze moderno dei maestri Alcest. Nulla di cosi immediato, il sound dei Mal Etre è un qualcosa in grado di spingerci fino all’orlo del precipizio e probabilmente anche qualcosa in più. Gocce di pioggia a metà brano sottolineano quel senso di malinconia (per non dire cupa disperazione) che attanaglia l’intero cd; la pioggia lascia poi il posto a linee di chitarra contraddistinte da un uso estremamente basso dell’accordatura, in compagnia di urla disumane in sottofondo e apocalittiche visioni da fine del mondo. Il senso di sofferenza prende il sopravvento anche con la successiva “Unblessed Beings”, dove l’artefice di questi suoni finisce per compiangersi sin dai primi tocchi arpeggiati di chitarra. Poi quando sopraggiungono i cori, l’influenza del combo finlandese sopraccitato si fa più forte, e la musica del nostro eroe finisce per mescolarsi con un riffing epico di chiara matrice Burzum, per un finale da brividi. Evocativo, malato, contemplativo, questi sono solo alcuni degli elementi che emergono dall’ascolto di questo “Torment” che è in grado di regalarci ancora altri momenti di mistero con “Sad Day” e di solenne black metal con “Son Ame Saigne”. Peccato solo che la produzione non sia delle migliori, sono convinto che con altri suoni si sarebbe potuto apprezzare maggiormente i dettagli di questo seminale opera. Tormentati! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75

domenica 29 maggio 2011

Alpthraum - Cacophonies from Six Nightmares

#PER CHI AMA: Black Ambient Funeral Doom
Ci sono generi, nel metal, che sfociano in importanti esperimenti sonori e le influenze sono talmente varie che spesso si fatica a ricavarne l’origine. Generi che esaltano e distruggono allo stesso tempo, che instillano una malinconia sottocutanea a tratti demistificata. Musica di nicchia, senza dubbio. Gli Alpthraum sono una di queste band. Impossibili da definire. È musica nera che più nera non si può. Dopo attenti ascolti mi sono ritrovato a riflettere sulla natura viscerale dei sentimenti che stanno alla genesi di un disco come questo, e, allo stesso tempo, ho cercato di comprendere le fondamenta che sottostanno a un genere tanto ricercato. Fondamentalmente “Cacophonies from Six Nightmares” dovrebbe (usiamo il condizionale) essere un album black metal. Almeno, da un calcolo quantitativo, le atmosfere tipicamente black risultano le più consistenti nel corso delle sei tracce. Un sound alla “Wolven Ancestry” tanto per intenderci, primitivo e animale. Non solo. L’uso artificioso di lunghissime pause e il pesante ricorso ad elementi ambient, formano un disco di rara complessità, e mi rendo conto che per i non addetti ai lavori può essere una sfida riuscire ad arrivare fino alla fine dell’ascolto in una sola volta. Il maggior punto a favore, che rimane però anche quello più problematico, resta il sapiente dosaggio di violento black ad un’atmospheric-doom (è davvero difficile rinchiuderlo in un’etichetta generica) che richiama alla lontana il sound dei Void of Silence. La sesta traccia dell’album (il sesto degli ultimi incubi cui allude il titolo) si dimostra una performance di sei minuti (che sia un caso?) in cui non compaiono chitarre o batteria. È l’inquietante soliloquio di una creatura indefinita, alternato a suoni e rumori che coinvolgono l’ascoltatore in un’atmosfera inconcepibile per la mente umana, quasi una nenia sacrale. Caos e silenzio. Caos e silenzio. Caos e silenzio. I lettori accaniti di Lovecraft, come lo è il sottoscritto, potranno trovare in quest’opera musicale il perfetto sottofondo per gli orrori dell’altrove, anche se, rimanendo in campo doom, gli Antichi rimangono patrimonio storico dei Thergothon. Sconsigliato a chi è affetto da tendenze suicide. (Damiano Benato)

(Kunsthauch)
Voto: 70

sabato 28 maggio 2011

Zifir - Protest Against Humanity

#PER CHI AMA: Black mid tempo, primi Nachtmystium, Burzum
Ecco un album che ci si sente obbligati ad ascoltare per intero, un viaggio di sola andata da affrontare da soli attraverso nove agonizzanti stazioni di puro suono ipnotico. Non è una metafora campata in aria. L’intera opera appare davvero progettata come un itinerario attraverso i luoghi più bui (e puri) dell’anima. Si parte con un’intro strumentale, lenta e commovente, commutata in un abbandono definitivo dai luoghi dell’innocenza per immergersi a poco a poco in un sound più ostile, amaro, graffiante. Le chitarre ‘a zanzara’ sono le reali dominatrici di questo universo sonoro. Permeano ogni tonalità con la stessa frequenza con cui penetrano nel cervello di chi le ascolta. Ronzano indistintamente in passaggi lenti e veloci, violenti e melanconici rievocando a tratti i primi Nachtmystium, altrettanto drogati dall’onnipresenza sciamica. Gli Zifir assorbono elementi da molte band del genere black (io lo definisco con affetto spiritual slow black), riuscendo tuttavia a sperimentare e dare vita ad un interessante lavoro, dimostrando capacità e serietà nella composizione delle tracce, che pur riproponendo un sottofondo ipnotico non si dimostrano mai ripetitive. Sono dell’idea che sia necessario avere una conoscenza a priori di questo tipo di metal, altrimenti risulta impossibile apprezzarlo appieno e viene percepita solo un’accozzaglia di strumenti e voci sofferenti. Il risultato è ben altro. Queste band creano sinergia e non è possibile dire: “Ehi, senti questo ritornello!”. Il ritornello non c’è, non esiste. Ogni canzone deve essere ascoltata per intero nella sua evoluzione. Solo così si può comprendere, ad esempio, perché le tracce più lente e pseudo strumentali siano “Uncertain”, “The Poison From My Veins” e “Goat’s Throne”, rispettivamente la prima, la quinta e l’ultima. “Goat’s Throne”, in particolare, rappresenta in sintesi l’anima dell’intero album. Otto minuti di inospitalità in cui si passano in rassegna tastiere gotiche, voci pulite alternate a screaming e lamenti stile Burzum. Unica pecca, dal mio piccolo punto di vista, il titolo dell’album, che per fortuna non ha una title track. Non può esserci una protesta contro l’umanità, se quest’opera stessa parte dalla negazione di quello che la società umana comporta. Così come ogni opera d’arte del genere umano, qualunque sia il messaggio che intende veicolare, non avrebbe ragione di esistere se tale significato non venisse trasmesso. Apprezzo moltissimo la qualità di questa musica, ma la troppa estremizzazione dei testi a volte mi sembra superficiale e stereotipata. Ciò non toglie la qualità di un album come “Protest Against Humanity”, e quello che incarna: una selvaggia, carnale epifania. Tutta in ascesa. (Damiano Benato)

(Kunsthauch)
Voto: 80

giovedì 26 maggio 2011

Cult of Erinyes - Golgotha

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal, Absu, Mayhem, Ondskapt
Ritualistic black metal, interessante definizione per questi sconosciuti Cult of Erinyes provenienti da Bruxelles. EP d’esordio datato 2010 questo “Golgotha”, fa da apripista al nuovissimo lavoro “A Place to Call My Unknown”. Apertura ambient affidata ai 3 minuti e mezzo di “Anima”, che fa delle atmosfere rituali il suo punto di forza; poi ecco scatenarsi l’inferno con “The Glowing Embers” che esplode in tua la sua veemenza black con una ritmica martellante di chiara matrice old school. I suoni non sono proprio il massimo, ma la furia black non cerca di certo suoni bombastici per scatenarsi; l’incedere delle ritmiche si avvicina notevolmente a quello del mitico “De Mysteriis Dom Sathanas” degli immensi Mayhem, con le vocals di Mastema che provano egregiamente a ricalcare quelle del buon vecchio Attila. Se devo essere sincero è proprio la parte vocale ad entusiasmarmi maggiormente in questo lavoro della durata di poco più di 15 minuti, dove l’aria sulfurea che si respira, si fa ancor più malsana e intrigante nella terza e conclusiva, “The Year All Light Collapsed”, che fa decollare qualitativamente la proposta del terzetto belga. Suoni rallentati, al limite del doom si intrecciano con un mood d’avanguardia (dimostrato anche dalle cleaning vocals) che sfocia in un finale suggestivo, un inno alla guerra, con il drumming di Baal davvero epico e le vocals gracchianti in marcia verso la vittoria. Peccato solo per l’esigua durata dell’EP, altrimenti sono certo che la band avrebbe meritato di più. Ora attendo l’ascolto del full lenght che segna l’esordio sulla lunga distanza per questo nuovo combo mitteleuropeo. Interessantissimi! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

lunedì 23 maggio 2011

Spuolus - Behind the Event Horizon

#PER CHI AMA: Space Funeral Doom, Helllight, Septic Mind
Il mio primo problema nel dover recensire questo cd è stato dover capire quale band stavo ascoltando, perché sulla copertina della release, non vi era alcun logo o titolo; fortunatamente girovagando per il web, sono riuscito ad individuare il tutto, grazie al contenuto cosmologico (la scienza che studia l’universo) riportato nel booklet. E cosi quello che ho fra le mani è l’introvabile (solo 500 copie stampate, che onore!) debut degli ungheresi Spuolus, che con il loro atmosferico black doom, affrontano i temi legati all’universo. Affascinanti a dir poco, perché i nostri (dovrei dire il nostro, visto che si tratta di una one man band), si spingono con le loro liriche verso concetti legati ai buchi neri e alla previsione della relatività generale. Intriganti le lyrics, altrettanto i suoni che fuoriescono da queste quattro infinite tracce, che raggiungono quasi l’ora di musica. La release si apre con i quasi venti minuti di “I Stand Nowhere” e non posso far altro che calarmi in questo viaggio spaziale alla ricerca dell’”orizzonte degli eventi”. Un synth apre il tutto delicatamente, per lasciar ben presto posto al misantropico e litanico riffing di Szabó Void, unico membro della band. La song è atmosferica, grazie al massiccio uso di synth, inquietante per quel suo incedere tipico del funeral doom, angosciante per le sue funeree ambientazioni, ma mi piace, non lo nego. I suoni apocalittici penetrano le mie vene con quel loro ossessivo e asfissiante incedere; dopo quasi dieci minuti, finalmente la song cambia ritmo, modificando il proprio giro di chitarra e rimango ancor di più catalizzato dalla morbosità dei suoni, dall’aria totalmente priva di ossigeno. Beh chiaro, ci stiamo spingendo verso i confini della nostra galassia, e i suoni che percepiamo finiscono per assumere connotati quasi alieni, ma non abbiate paura ad avvicinarvi agli Spuolus, potrebbe essere una interessantissima esperienza extraterrestre. La conferma della unicità della proposta musicale del combo magiaro, ci arriva anche dalla seconda titanica “Your Defencelessness”, che riprendendo i suoni della traccia posta in apertura, continua con suoni enigmatici, talvolta tribali, spaziali, unici, sinfonici, mi conducono oltre le “colonne d’Ercole” della galassia e qui la percezione extrasensoriale si fa più profonda. Le musiche, mantenendo quella melodia di fondo, ci mostrano angoli galattici sconosciuti. E il mio viaggio in compagnia di E.T. prosegue alla scoperta di suoni non di questo mondo, narrati in modo oscuro dal buon Szabó. Il funeral finisce per fondersi con l’avantgarde e la follia di act nordeuropei; il growling si trasforma in un cantato pulito sofferente, sono quasi condotto in uno stato catatonico. Forse gli alieni stanno manipolando la mia mente, perdo la coscienza, non capisco più dove mi trovo, cosa succede, i suoni continuano a scorrere come arcobaleni in cieli costellati da sette lune e quattro soli. Il mio viaggio continua e i miei sensi percepiscono cose che mai prima d’ora erano state provate: suoni sinistri, colori indecifrabili e sensazioni inusuali mi si parano davanti. Quando ritorno sul pianeta terra la sensazione è quella di far fatica a respirare, forse il ritorno all’ossigeno mi dà un po’ alla testa ma pian piano mi riabituo alla nostra atmosfera. Un viaggio unico, ma forse non da tutti affrontabile quello in compagnia degli Spuolus. Intergalattici! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85

Movimento d'Avanguardia Ermetico - Stelle Senza Luce

#PER CHI AMA: Depressive Black, primi Burzum, Lantlos
Devo essere sincero ed ammettere d’esser stato inizialmente affascinato da questo cd esclusivamente dal nome mistico della band e dal titolo della release. Poi l’ascolto ha fatto il resto. Eh si, perché quando “Stelle Senza Luce” apre le danze, ecco trasportarmi in un vortice senza speranza, in una strada senza uscita, catapultandomi d’improvviso in una vita senza senso. Questo è quello che ho respirato fin dalle note dell’iniziale “Decade di Isolamento e Aristocratico Distacco”, song che ci consegna finalmente una grande band italiana dedita ad un suicidal black metal, dalla forte vena malinconica. Il riffing zanzaroso eseguito con grande maestria, ci riporta ai gelidi boschi norvegesi, dove era solito trascorrere il suo tempo, in totale solitudine, il buon Varg Vikernes (Burzum). E proprio dalle sonorità del conte norvegese, i nostri traggono un po’ della propria ispirazione, senza tuttavia tralasciare richiami alla tradizione black depressive svedese (primissimi Katatonia e primi Shining). Tutto questo per confermarvi che il debutto della band italica, per quanto sguazzi all’interno di sonorità già proposte ampiamente nell’arco dell’ultimo ventennio, mostri una già carismatica personalità dei nostri, che emerge all’interno di questi cinque lunghi inni, dove a scorribande di glaciale black metal old school, si possono ritrovare frangenti atmosferici al limite del psichedelico (ascoltare la “liquida” “Ritorno alle Porte dell’Essere”) o aperture melodiche di gran classe (meravigliosa l’apertura di “Spazi Remoti di Abissi Interiori”), con delle vocals che urlano tutto il loro dissapore. Sono entusiasta dall’ascolto di questo cd (cosi come era avvenuto per i debutti di Mete Infallibili e Kalki Avatara, a dimostrare che le grandi band di black d’avanguardia non si ritrovano solo in Francia (Deathspell Omega, Blut Aus Nord e Pensees Nocturne) o in Germania (Lantlos), ma che anche in Italia esiste un interessante movimento nell’underground. Brava anche la russa Kunthauch a scoprire questi talenti; ora a voi il dovere di dare un ascolto a questo Movimento d’Avanguardia Ermetico. Mistici! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 80