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lunedì 16 gennaio 2012

Never Die - The Source of Black Waters

#PER CHI AMA: Death Symph, Trail of Tears, Tristania
“The Source of Black Waters” rappresenta il secondo lavoro per la band russa Never Die, fautrice di un death gotico di pregevole fattura. Non deve trarre in inganno infatti l’attacco brutal death che segue la intro del cd, “Ejected from the Dephts” e le orrorifiche growling vocals di Regina Mukhamadeeva, che sembra quasi la reincarnazione russa della nostrana Cadaveria; il sound del sestetto di Bashkortostan assumerà ben presto connotati più umani e melodici, già a partire dalla seconda parte di “Ejected from the Dephts”, dove a contrastare la furia dei nostri ci pensa la versione da soprano della brava Regina. Dopo la tempesta impetuosa del primo pezzo, i nostri, pur mantenendo un sound bello potente, con una ritmica costantemente martellante, piazzano li una serie di pezzi che si fanno notare per una marcata dinamicità di fondo, un più che discreto tecnicismo, e interessanti parti atmosferiche che ben si incastrano nel tessuto ben oliato di questa inaspettata macchina da guerra, senza tralasciare le operistiche vocals femminili, che alla fine risultano essere il solo punto di contatto che la band può avere con il gothic metal sinfonico. Mi ha sorpreso infatti leggere sul flyer informativo che la band proporrebbe un death gothic, mi verrebbe più da etichettare il tutto come un techno death accompagnato da voci da soprano, e vi garantisco che “Inner Sense” sintetizzerebbe alla meraviglia il tutto. La musica dei nostri non gode infatti di momenti di pausa (se vogliamo escludere la melensa “Sunstroke”), è un caterpillar irrefrenabile che spazza via qualsiasi cosa incontri sul proprio percorso, tanto che alla fine del cd, l’unica cosa che alla fine trovo fuori luogo finisce per essere proprio la versione più angelica della voce di Regina, altrimenti avrei apprezzato maggiormente la tumultuosa release di questo ensemble proveniente dalla gelida Russia. C'è ancora margine di miglioramento, quindi diamoci da fare! (Francesco Scarci)


(Darknagar Records)
Voto: 65

sabato 10 dicembre 2011

Sacratus - ...Paradise for Two

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost, My Dying Bride
Li avevamo lasciati poco più di due mesi fa con il loro debut “The Doomed to Loneliness” e torniamo oggi a recensire i russi Sacratus, con un nuovo lavoro, decisamente più maturo del suo predecessore. “…Paradise for Two” presenta otto tracce di cui tre ri-registrate provenienti dal precedente album. Diciamo subito che la formula non è cambiata granché, in quanto l’act di Cherkessk continua a proporre un death doom dalle forti tinte autunnali. Ciò che è migliorato sensibilmente è il songwriting, la struttura dei brani si è snellita, con pezzi più brevi, digeribili e intellegibili, le vocals continuano a rappresentare il pezzo forte dei Sacratus, muovendosi tra growlings mai estremi e cleaning vocals assai piacevoli. Ciò che di fatto fa fare un salto di qualità al quartetto è la vivacità della proposta, che richiama per certi versi i Paradise Lost di “Shades of God” o i My Dying Bride di “Turn Loose the Swans”, mostrando però più sprazzi di solarità nel loro sound, anche se comunque a parte la opening track, tutte le altre songs sono finiscono per l’essere imbrigliate in un senso di velata cupezza. Ma d’altro canto se cosi non fosse, non sarebbe di sicuro doom quello che i quattro propongono. “Shadow”, “The Hard Thinking”, “Tristeza Mia”, ma soprattutto l’arabeggiante “Revelation” (la mia preferita e forse anche la migliore del lotto), fluiscono senza intoppi e il loro ascolto non scade di sicuro nella noia, come mi era capitato invece nella precedente release. Quel che è appare chiaro è che tra le mani non abbiamo nulla di nuovo, è sempre un sound abbastanza derivativo che non apporta grosse novità al genere. Però mi sembra che l’ensemble russo stia lavorando egregiamente, anche grazie al supporto dell’attenta etichetta Darknagar Records e che quindi meriti la vostra attenzione. Per ciò che riguarda le tre tracce ri-registrate, “Madness”, “Fallen Angel” e “The Last Hope”, i nostri tornano ad ammorbarci con pezzi stralunghi in grado di rubarci una mezz’ora della nostra vita, con visioni cupe e catastrofiche. Depressi! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 75

domenica 25 settembre 2011

Lost Conception - Paroxysm of Despair

#PER CHI AMA: Techno Brutal Progressive Death, Pestilence, Death
Abbastanza controverso l’ascolto di questo cd: se dai primi due minuti d’ascolto di “Pathetic Existence” mi ero convinto di avere fra le mani un prodotto di brutal techno death, ecco cadere ogni mia convinzione con la seconda metà del brano, dove passaggi acustici, melodici e atmosferici, ci consegnano una band camaleontica, in grado di cambiare vestito in pochissimi secondi da qualcosa di devastante e ferale a qualcosa di assolutamente tranquillo o al limite dell’imprevedibilità. E cosi anche con l’incipit di “Useless Shell of Void” vengo prontamente annichilito dalla potenza di fuoco del quartetto russo di Krasnoyarsk, prima che il mio cervello subisca un nuovo intervento lobotomizzante per le ritmiche schizoidi della band. Album di debutto col botto per i Lost Conception che nelle note di “Paroxysm of Despair” mischiano in modo egregio ritmiche infernali a la Death, con incursioni devastanti a la primi Pestilence. Mi ritrovo alla terza traccia con le ossa già pesantemente frantumate e fortunatamente il ritmo di “Urbanistic Echoes of Evolution” non è tra i più veloci viaggiando su un mid tempo che comunque fa degli improvvisi cambi di tempo, della elevata tecnica e dell’improvvisazione, il proprio punto di forza, per non parlare poi dell’esagerata sezione solistica, dove il duo Doctor/Verz (tra l’altro anche entrambi i vocalist), duetta con delle saettate impressionanti per tecnica e per gusto estetico. Sono compiaciuto, devo ammetterlo: l’orribile copertina non lasciava presagire nulla di buono e invece, come si suol dire, “l’abito non fa il monaco”, ed ecco che il contenuto di questo album di debutto, farà sicuramente la gioia di chi ama un techno progressive death e di chi ha una profonda nostalgia dei riffs del buon Chuck Schouldiner. Le liriche di questo micidiale lavoro, vertono poi sul degrado della società moderna, ormai allo sbando tra mille scandali e manipolata dai media (“Human Becomes an Idiot”) o prossima all’autodistruzione attraverso una qualche guerra chimica o nucleare (“Society Equals Zero”). Chissà se c’è uno spiraglio a questa continua corruzione dell’animo, di sicuro i Lost Conception provano a illuminarci questa difficile lunga strada, con grande classe e convinzione. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 80

sabato 24 settembre 2011

Inner Missing - The Age of Silence

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
Nuovo album dei My Dying Bride? No, non credo proprio, ma il sound proposto dal combo di San Pietroburgo non si discosta poi cosi tanto da quanto offerto negli ultimi anni dall’act della terra d’Albione. Il four-pieces russo propone infatti un death doom di pregevole fattura che, forse solo nella sua opening track, non convince appieno, avendo quel sapore un po’ troppo scontato. Con “My Sickened Hope” invece, l’act della “Venezia del Nord” cambia registro e fornisce una prova davvero eccellente con pezzi ispirati che richiamano fin dal riff, posto in apertura di traccia, i gods inglesi e poi grazie alla prestazione vocale, eccelsa e sofferente di Sigmund, spingono per trovare una collocazione di prestigio nella scena death doom internazionale, a fianco di band del calibro di Saturnus e Swallow the Sun, su tutti. A parte queste due band, spunti provenienti dagli esordi degli Anathema, emergono prepotenti in questa prima fatica discografica degli Inner Missing, che segna appunto il loro debutto su lunga distanza, dopo l’EP “All the Lifeless” del 2009. Tutti questi riferimenti a molteplici band non sono da prendere tuttavia con negatività, in quanto il quartetto della città degli zar, reinterpreta con indubbia personalità, uno stile che sta vivendo il suo massimo splendore, grazie anche all’oculatezza di etichette come la Darknagar Records o, sempre rimanendo in territorio russo, Solitude Production e BadMoodMan Music. Intrigante la strumentale “Euphoria”, capace con il suo ritmo incalzante, ma al contempo atmosferico, di instillare un vortice di emozioni contrastanti nell’animo dell’ascoltatore. Un arpeggio apre “For Your Light”, song che gioca ancora una volta la carta “prova eccezionale del proprio vocalist” che, alternandosi tra un growling convincente e quel cantato tipicamente disperato alla Aaron Stainthorpe, garantisce al risultato finale, una elevata qualità. La prova strumentale degli altri membri non è poi da meno, con un riffing portante massiccio, ma sempre pervaso da una componente melodica, malinconica e drammatica assai importante, capace costantemente di portare vibrazioni nelle orecchie ma soprattutto nel cuore di chi li ascolta. Sono sorpreso e compiaciuto di questa prova degli Inner Missing, a conferma del fatto che questo genere, che sembrava essersi perduto in passato, con la virata verso altri lidi da parte dei Paradise Lost e dei già citati Anathema, oggi goda invece di tutto questo interesse e possa mostrare band di assoluto valore come i russi di quest’oggi. Ora sono curioso di ascoltare il nuovissimo “Escapism”. (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 80

mercoledì 7 settembre 2011

All I Could Bleed - Burying the Past

#PER CHI AMA: Black Symph, Cyber Death, Modern Metal
“Essere o non essere, questo è il problema”… Questo il monologo di Amleto nell’opera omonima di Shakespeare, da cui deriva anche il mio di dilemma “mi piace o non mi piace questo cd”. Eh si perché questo lavoro fin dalle sue prime note, mi ha gettato addosso tale dubbio profondo. “Burying the Past“ si apre infatti in modo alquanto scontato con un death melodico, moderno, che strizza l’occhiolino ai famosi colleghi finlandesi, onnipresenti Children of Bodom, lasciandomi alquanto perplesso per la pochezza di idee proposte: chitarrine non troppo pesanti in “Private Hell”, abbondanza di tastiere, voci in versione screaming, mah, il tutto non mi convince poi tanto, anche se un break posto a metà brano mi fa rizzare immediatamente le orecchie e riacquisire l’interesse verso un cd che si stava dirigendo dritto dritto verso la stroncatura feroce. Non saremo di fronte a dei fenomeni o a dei geni della musica, ma i nostri amici russi lentamente sanno come prendermi e alla fine a conquistarmi. La title track finalmente irrompe nel mio stereo con delle chitarre un po’ più solide e potenti, con le keys a sostenere in modo poderoso il sound dei nostri, che inizia a prender una propria fisionomia, staccandosi dalla proposta dei Bodom e incanalandosi verso sonorità più votate al modern metal, con melodie intelligenti, intermezzi al limite del techno death, valanghe di inserti tastieristici a strizzare l’occhio anche ad un certo cyber metal; buoni i solos. Le keyboards aprono “Plague” e ancora una volta mi pongo il dubbio se il cd di questi All I Could Bleed in fondo riesce a conquistarmi oppure è solo un fuoco di paglia: non saprei, sono dibattuto, perché la song alterna momenti pallosi, triti e ritriti con altre aperture che denotano una certa personalità, ancora in stato embrionale per carità, ma quel solo di basso impazzito nel mezzo della canzone (ad opera di Ivan Stroev), quasi un tributo ai Death, mi fa sussultare dalla sedia, anche se poi il quartetto di Chelyabinsk, guidato dalle vocals malvagie della bellissima Psycheya, si mette ad inseguire improbabili percorsi black sinfonici, che compariranno anche più in là in altre tracce dell'album. Forse le idee non sono ancora ben chiare e lo si capisce con la successiva “Under the Moon”, dove compaiono clean vocals maschili su un improbabile tappeto heavy-folk, che nuovamente mi mette in crisi, ben presto superata dalla ripresa dei ritmi, mai troppo esasperati a livello di velocità, del quartetto russo. Insomma di carne al fuoco in queste nove tracce devo ammettere che ce n’è davvero molta, in quanto l’act est europeo non ha ancora ben deciso che genere musicale suonare, tuttavia, alla fine ad una conclusione sono giunto… il cd mi piace! Dategli un ascolto anche voi, meritano una chance! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto:65

giovedì 7 luglio 2011

Atra Hora - Lost in the Dephts

#PER CHI AMA: Death Melodico
Scava e scava sempre più in profondità e vedrete che possono venire alla luce pietre preziose o reperti archeologici antichissimi. Alla stregua di un archeologo, in questo periodo mi sono lanciato alla ricerca di quanto più misterioso e oscuro possa rivelare l’underground metallico. Ancora una volta mi spingo quindi verso i lidi inesplorati della Russia, bacino dall’inestimabile valore, con questa uscita targata Darknagar Records, alla ricerca di chissà quale monile o gioiello. Ecco capitare quindi tra le mie mani “Lost in the Dephts”, debut album dei russi Atra Hora, il cui inizio è affidato ad una quasi tribale, anzi direi mediorientale melodia, che quasi mi spinge pensare ad una band in stile Melechesh. In realtà, mai fu cosi sbagliata la mia ipotesi: l’act dell’ex Unione Sovietica infatti, suona death metal di stampo melodico che fin dall’iniziale (e dall’incedere marziale) “Journey to the Chaos” mi ha ricordato i Rotting Christ di “Sleep of the Angels”. “They Go” abbandona le atmosfere soffuse iniziali per lanciarsi in una cavalcata arrembante, in cui trova posto un break centrale di basso, mentre la successiva “Awaking of the Unholy”, traccia, con le sue linee di chitarre, piacevoli melodie, con le roche vocals di Alextos a rendere omaggio alla natura. Ben più brillante è la lunga “War Under the Sign of Baphomet”, che si apre con una parte narrata, per lanciarsi ben presto in vorticosi giri di chitarra, senza tuttavia mai andare a velocità sostenute, ma anzi tracciando sinuose melodie, sulle quali emerge il growling/screaming di Alex, con i toni che sembrano aumentare, sollevarsi e avvinghiarsi come un serpente che si attorciglia attorno ad un albero. La ritmica cresce lentamente, non toccando mai vette inusitate però, per arrestarsi di colpo nel consueto break acustico centrale, e lasciarsi finalmente andare nella cavalcata finale, dove il pizzicare le corde di Yanis, sembra possa rifarsi alla tradizione etnica russa; l’ultima parte è invece lasciata ai tenui tocchi di un pianoforte. La band di Pyatigorsk mi piace parecchio, anche se come capita ormai nel 90% delle recensioni che scrivo, è ormai impossibile poter trovare qualcosa di originale e il terzetto non è certo immune a questo male dilagante; tuttavia non è di cosi fondamentale importanza. “Holocaust” pesca dalla tradizione pagana, per poi lanciarsi in un nuovo attacco, ancora una volta richiamando il primo epico sound dei greci Rotting Christ. Un altro arpeggio nella tradizione mediorientale apre “Requiem for Human Tribe”, poi è un riffing vario, accompagnato costantemente da quei fastidiosi blast beat, a condurci nel regno degli Atra Hora, che fanno dei cambi di tempo repentini, degli intermezzi acustici, delle aperture al limite del progressive (date un ascolto alla lunghissima conclusiva “Voices of the Forgotten Dephts” per farvi un’idea), i loro punti di forza. Non siamo di fronte a dei mostri, né di tecnica, né di personalità, tuttavia sono pienamente convinto che ci possano essere ampi margini di miglioramento. Sorvegliamoli e vediamo dove potranno andare a parare; uno sgrezzamento nel loro impianto sonoro, qualche buona idea piazzata qua e là, l’utilizzo di qualche diabolico orpello e i nostri potrebbero potenzialmente fare il botto. La parola d’ordine rimane però una sola, coraggio! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 70