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sabato 25 novembre 2023

Hence Confetti - S/t

#PER CHI AMA: Math/Djent
I più attenti che seguono il Pozzo dei Dannati da parecchio tempo, si ricorderanno che abbiamo recensito un paio di dischi dei Mish. Ecco, il frontman di quella band, Rowland Hines, ha pensato di fondarne una tutta nuova durante la pandemia. I nostri, che rispondono al buffo nome Hence Confetti, debuttano quindi per la Bird's Robe Records (la stessa etichetta dei Mish) con questo EP autointitolato che sembra ammiccare al poliritmico sound dei Meshuggah, un genere, il djent, che avevamo comunque apprezzato anche in 'Entheogen' e 'The Entrance' dei già pluricitati Mish. Quindi, facendo tesoro di quell'esperienza, il buon Mr Hines coniuga alla grande le sonorità djent con il math, come palesato nella seconda "Buttons", tra chitarroni pesantissimi e suoni obliqui, il tutto corredato da un growling furibondo e opprimente. Non mi sono dimenticato dell'opener "New Homes" ovviamente, dove gli australiani fanno confluire un che di Devin Townsend nelle note più crepuscolari di un pezzo comunque interessante, una sorta di apripista per un disco che sembra comunque rimanere senza contorni stilistici ben definiti. Questo perchè "Rorschach" (chissà se c'è un qualche riferimento al test psicologico per l'indagine della personalità) si palesa come un delicato pezzo strumentale che poco ha a che fare con i brani precedenti ma sembra piuttosto un lungo e forse tedioso bridge per la seconda parte dell'EP. E "Ovation" e "Bandages", sebbene una introduzione più meditabonda la prima, tornano a impressionare con ritmiche violente più in linea con "Buttons" e parti atmosferiche, che mi hanno evocato in ordine i Lingua, i Tool e nuovamente il folletto canadese. La conclusiva "Bandages", nella sua dirompente violenza sonora, pur peccando a livello produttivo, quasi fosse stata registrata in modo completamente diverso dalle altre tracce, si dimostra la song più diretta, solida, Tool-oriented e ipnotica del lotto. Insomma, quello degli Hence Confetti (peccato solo che questo moniker faccia perdere un filo di credibilità ai nostri) si dimostra un buon biglietto da visita che auspico possa concretizzarsi in un più curato e lungo album futuro. (Francesco Scarci)

martedì 14 novembre 2023

Closure in Moscow – Soft Hell

#PER CHI AMA: Alternative Pop Rock
Devo ammetterlo, questo nuovo album degli australiani Closure in Moscow, mi ha creato molti conflitti, fin dall'uscita dei primi singoli. Premetto che ho adorato le uscite precedenti reputandole geniali e molto sottovalutate, però questo album non me lo aspettavo fatto in questo modo. I nostri hanno fatto una scelta stilistica simile all'ultima fatica dei Coheed and Cambria, oppure l'ultima uscita dei The Mars volta, o al tempo, 'Pitfalls' dei Leprous, dove delle ottime band in odor di hard rock progressivo moderno e ad alto tasso tecnico, si spostano verso ambienti più pop, alla ricerca di notorietà e un più vasto pubblico. In fatto di tecnica, questa band ha già dimostrato di non essere seconda a nessuno e, anche in quanto a produzione, ha sempre avuto standard altissimi. Ricerca dei suoni ed eleganza sono una prassi per la band di Melbourne, però in questo disco i nostri calcano tanto la mano su innesti funk, pop, dance, il tutto a discapito delle fughe nel rock prog che rendevano gli album precedenti pazzeschi. Immaginate gli Incubus ancora più tecnici, ma più goliardici, che giocano con il funky dei migliori FFF (French Funk Federation), si esaltano in assoli ma non entrano mai in un'atmosfera diversa dallo scanzonato rock che ricorda certi gruppi funk metal degli anni '90. Il disco è pieno di idee sullo stile dei progetti di Omar Rodriguez Lopez, ma come nell'ultima opera dei Coheed and Cambria, passo dopo passo, ci si avvicina sempre più ad una deriva elettro/indie/pop rock, con buone intuizioni ed ottime sonorità, al passo con certe cose di Saint Vincent, ma che guasta con il passato dei Closure in Moscow, per come si sono proposti in precedenza e i dischi che hanno fatto fino a questo punto. Certo, cambiare rotta fa parte di un artista e la ricerca, seppur avanzata in generi nuovi ed inusuali, non si è fermata anzi si è espansa, però qui la band ha cambiato registro e cercato una soluzione più appetibile per un pubblico più ampio. Resto tuttavia dell'idea che per la caratura di questi musicisti, inseguire le orme di band come i Red Hot Chili Peppers, che in cambio di un grande successo hanno perso grinta, carisma e freschezza nelle composizioni, non sia la strada giusta, almeno dal punto di vista artistico. Tornando all'album, non posso far altro che dire che è un buon disco, suonato troppo bene per restare nel calderone del pop, carico di buone idee, belle sonorità e tecnica sopraffina ma troppo pop, soul e funk, per emergere tra i seguaci del progressive rock e dell' alternative rock, che potrebbero rimanere delusi da quel velo di leggerezza che pervade l'intera opera. Cosa, comunque, che non intacca minimamente le qualità di composizione e di esecuzione di questi musicisti, che rimangono spettacolari, con un vocalist eccezionale che risponde al nome di Christopher de Cinque. 'Soft Hell' è il titolo di questo loro quarto album, quasi un presagio che avverte i fans di un'imminente sconvolgimento dei piani, con una forma musicale sempre ricercata ma più melodica e meno selvaggia, un disco tutto da interpretare che creerà pareri contrastanti tra i fans dei Closure in Moscow. "Don Juan Triumphant" è la mia preferita perchè porta nella sua composizione molti richiami al loro passato, "Jaeger Bomb" ha un tiro pazzesco, mentre in "Lovelush" vi trovo persino qualcosa degli '80s al suo interno e con la sua vena sognante e romantica, per quanto ricca di curiosità soniche, mi sconcerta più di tutti gli altri brani. Un album che deve essere ascoltato e studiato da mille angolature per capirlo e dargli il giusto apprezzamento, una nuova veste per questa band, che ha sempre e comunque, saputo mettersi in risalto ad ogni uscita. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 70

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/soft-hell

venerdì 10 novembre 2023

Treebeard - Nostalgia

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Ci impiegano più di cinque minuti ad ingranare la marcia gli australiani Treebeard per venire fuori dall'opening track di questo 'Nostalgia', lavoro uscito due anni fa e riproposto dalla Bird's Robe Records su cd in questi giorni. Quando lo fanno però, il quartetto di Melbourne colpisce per i suoi suoni accattivanti ed attrattivi, in grado di miscelare post rock e sonorità progressive. Che la band sia pigra ad emergere dai propri trip cosmici è confermato anche dalla seconda e lunga "The Ratcatcher", che piano piano ci racconta qualcosa di più di questa band di cui ho scoperto solo oggi essere nella pila dei cd da recensire. Le sonorità molto intimistiche sono quelle che hanno il sopravvento nell'economia del disco con il post rock e tutti i suoi orpelli (suoni riverberati, tremolo picking e atmosfere soffuse) a farla da padrone e a conquistare nemmeno troppo lentamente, la mia fiducia. Si perchè i Treebeard mi affascinano per le loro sonorità che evocano altri artisti dell'etichetta di Sydney (penso ai We Lost the Sea), ma trovo abbiano anche qualche punto in comune con gli Anathema più crepuscolari e malinconici. E non posso che apprezzare, io che sono fan della band inglese, ma che seguo da vicino anche le attività della label australiana. Se poi aggiungete il fatto che finalmente una band post rock si proponga in una veste non strumentale, potrete capire il mio piacere nell'assaporare le note, a tratti pesanti, di questi gentiluomini. Sempre piuttosto criptico è l'inizio anche in "Pollen", quasi fosse un marchio di fabbrica dei nostri, con atmosfere shoegaze che si combineranno successivamente con sonorità più oniriche e liquide, prima dell'esplosione delle chitarre che ristabiliscono una sorta di status quo emozionale ove poggiare le voci stralunate del frontman. Mentre la titletrack si configura come un ponte con la successiva "8x0", quest'ultima mostra influssi cosmici nei suoi contenuti, da quel basso apocalittico che si prende la scena a inizio brano, al rifferama di estrazione quasi thrash che da li in poi fluisce nel corso del pezzo, che forse va a confermarsi come il più pesante del lotto, con il post metal che sembra venarsi di sfumature post hardcore in una progressione sonora strumentale che ci condurrà a "Terra". Qui, sembra coglierci un barlume di speranza, come se avessimo scoperto un nuovo mondo grazie alle tastiere in apertura, in realtà stiamo solo scoprendo quanto bello sarebbe il nostro pianeta se non lo stessimo distruggendo con le nostre mani insanguinate da guerre, inquinamento, odio e quant'altro. Un pezzo quasi ambient che sembra sottolineare malinconicamente quanto tutto stia andando a rotoli senza che fondamentalmente non ce ne importi nulla. Splendide qui le melodie delle chitarre, che sanciscono la cinematicità di questo ensemble. "Dear Magdalena" e "Nostalgia II" chiudono il disco, la prima con voci e atmosfere di "radioheadiana" memoria, almeno fino al quarto minuto quando i nostri sterzano verso sonorità più roboanti che ci accompagneranno al finale di "Nostalgia II", dove spoken words aprono un brano intenso e drammatico che non può far altro che imporci mille riflessioni di qualunque tipo. Nel frattempo, non posso far altro che consigliarvi l'ascolto del qui presente. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 75

https://treebeard2.bandcamp.com/album/nostalgia

giovedì 5 ottobre 2023

Hemina - Romancing the Ether

#PER CHI AMA: Prog Rock
Ho letto un po' di tutto su questa navigata band australiana, chi li accosta al Devin Townsend Project, chi li avvicina ai Dream theater, chi li vuole con impulsi djent. Io, semplicemente, resterò fedele al mio istinto da ascoltatore per cercare di farvi crescere la voglia di avvicinarvi ad un album assai complesso e vivace, il quinto lavoro degli Hemina, 'Romancing the Ether', che già dal titolo e dall'artwork di copertina, vagamente hippie, invita alla fuga cervellotica senza nessun pregiudizio musicale. Partiamo col dire che è un'opera enorme dal punto di vista della quantità sonora che vi troviamo al suo interno, la band suona da manuale e le doti traboccano in eccesso, le melodie straripano e l'alto minutaggio dei brani a fatica riesce a contenere il flusso di idee che il quartetto australiano ha messo in campo per comporre questo disco. Gli Hemina sono una sorta di band d'altri tempi, poichè nelle loro composizioni, non nascondono un amore immenso per il retro rock di matrice progressiva, l'hair metal più complesso come quello dei sottovalutati Tychetto, e l'AOR ovvero Adult Orient Rock, un genere pieno di variegate influenze, mai troppo pesante, melodicamente ineccepibile, sempre orecchiabile e suonato da musicisti altamente qualificati, sottovalutato dal pubblico medio, apprezzato da una valanga di musicisti, intenditori e addetti ai lavori. Avvicinarsi al mondo di questo disco vuol dire quindi calarsi in un cosmo musicale che varia dall'universo degli Styx o dei Journey, per arrivare in punta dei piedi per i Coheed and Cambria e i conterranei Closure in Moscow, ovviamente per quanto riguarda il lato più moderno del sound, rivisitando i giustamente già citati Dream Theater, soprattutto prendendo spunto dal loro lato più romantico. Metteteci dentro anche che, per romanzare l'etere, gli Hemina si sono calati in una forma di psichedelia che si addentra in luoghi sconsacrati al rock, come la dance elettronica intelligente della EDM, anticipata al minuto 22 circa della lunga suite iniziale che dà il titolo all'album, da un intro etnico, dal sapore orientaleggiante, che richiama niente meno che, le sperimentazioni cosmiche degli Ozric Tentacles, e se si ha il tempo di chiudere gli occhi per 35 minuti filati, difficilmente si potrà non notare la passione per le doppie voci in falsetto o la maestosità fatta rock dei Toto o dei Supertramp (tipo quelli di 'Crisis? What Crisis?' del 1975), amalgamati da una voce spettacolare che con la sua estensione canora, imprigiona l'ascoltatore al disco, una performance vocale dinamica vicina al timbro vocale di Brandon Boyd degli Incubus e James Labrie. "Strike Four" continua con la magnificenza dei Dream Theater, e con una chitarra che si mette in bella mostra tra una melodica ballata di pianoforte e la voce di Douglas Skene, sempre in ottima evidenza. Un sound maestoso ad ampio respiro per 10 minuti di puro melodico rock suonato in maniera emotiva, con accenni di pesanti ritmiche di natura metal e una fluidità d'ascolto di una classe superiore. "Embraced by Clouds" parte con la voce femminile, che già aveva fatto la sua comparsa nel primo brano, a cura della bassista Jessica Martin che sfodera molte similitudini con gli ultimi lavori degli Anathema, ma senza perdere la propria originalità. Gli Hemina fondono il loro sound con un pungente, raffinato e moderno hard rock, e altri spunti di pesante metal, trafitto da innesti di tastiere progressive, assoli importanti e non ultimo, il canto corale di vecchia scuola Yes, e proprio per non far mancare niente alla tela di questo quadro multicolore, una lunga coda romantica cantata in maniera splendida a due voci, che farà felici gli amanti delle parti più melodiche dei Dream Theater. Il brano che chiude i circa 63 minuti dell'album è "Revelations", il più corto del disco, che riporta la band in territori di rock da grandi arene, di grande apertura, arioso e luminoso. 'Romancing the Ether' alla fine è un album che abbisogna di svariati ascolti per essere compreso appieno, è un disco che ha una veste progressiva, ma vanta un'anima, uno smalto e un vigore, più vicini alla rock opera, con tutti crismi del caso, nessun tipo di aggressività musicale ma tanta energia e virtuosismo, romanticismo tangibile, tecnica sopraffina ma nessuna traccia di rock urticante, maligno o nervoso. Un disco d'altri tempi come detto nelle prime righe, una lunga carrellata che non stanca, vivace, solare e pieno di tecnica strumentale e vocale, che sottolinea le alte aspettative di questa band, in termine di composizione ed esecuzione, un lavoro che non tutti apprezzeranno visto le sue doti atipiche, per sound e costruzione, un'opera che farà tuttavia la felicità di quelli che il rock lo vogliono pulito e di qualità. Una o meglio, più di una completa immersione d'ascolto, per questo album è vivamente consigliata. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 80

https://hemina.bandcamp.com/album/romancing-the-ether

venerdì 25 agosto 2023

Toehider - Quit Forever​?

#PER CHI AMA: Prog Rock
La Bird’s Robe Records è scatenata: una serie di uscite stanno infatti contraddistinguendo sin qui questa stravagante estate 2023. Tornano sulle scene i Toehider, la creatura di Michael Mills, dopo averli recensiti lo scorso anno con ‘I Have Little To No Memory of These Memories’. Digerito appieno quell’ambizioso lavoro, mi appresto ad affrontare il nuov EP del polistrumentista australiano intitolato ‘Quit Foreverer’, che dovrebbe far parte di una serie di ben 12 EP, un esperimento già compiuto a cavallo del 2009/2010. Il mastermind di Melbourne ci spara subito in faccia “Uncle Aqua”, che si toglie di dosso tutte le scorie orchestrali dello scorso anno e ci investe invece con un bel thrash/speed metal anni ’80, dotato di sonorità di “king diamondiana” memoria, un bel riffing (incluso un tagliente assolo) che ben si combina con i vocalizzi dell’artista. Dopo la prima mazzata in faccia, arriva “Every Day I Wake Up in the Morning and I FAIL! FAIL! FAIL” che sembra trasportarci nei paraggi di un garage pop rock, che viene brutalmente (e fortunatamente) spezzato da folli intermezzi di musica estrema che mi tengono incollato nell’ascolto della psicotica proposta dei Toehider. Se non sapessi con chi ho a che fare, credo che avrei skippato il brano dopo i primi sei secondi, e invece l’imprevedibilità è una delle specialità di casa Mills, non stupisca quindi di passare in una frazione di secondo, da musica pop a sonorità apocalittiche nere come la pece. Esaurito l’effetto sorpresa, ci muoviamo verso “Nobody Even Really Liked it in There But Me”, dove la sensazione è di essere catapultati indietro nel tempo di oltre 50 anni, alle origini del prog rock, per un brano che non ha nulla da spartire con quanto ascoltato sin qui. La canzone conclusiva, la title track chiude in modo malinconico il primo EP della serie, sulle note malinconiche di un pianoforte e sull’ispirata voce del frontman che lascia intendere che nei prossimi mesi ne sentiremo davvero delle belle. (Francesco Scarci)

giovedì 10 agosto 2023

Tangled Thoughts of Leaving - Oscillating Forest

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Ecco, l’hanno rifatto. Sto parlando degli australiani Tangled Thoughts of Leaving che hanno rilasciato un altro album di folle, imprevedibile post metal strumentale, venato di sonorità jazz. Chi pensa che questo genere inizi a stancare, beh si sbaglia di grosso perchè ancora una volta, la band di Perth supera se stessa e ci delizia con un doppio lavoro dal titolo suggestivo, ‘Oscillating Forest’, e da contenuti di altissimo livello che spazziano tranquillamente anche nel versante post rock, nell’ambient, nel prog, nella pura improvvisazione e addirittura nel noise. “Sudden Peril” apre le danze del lavoro e in poco meno di quattro minuti ci mostra il livello di ispirazione odierno della band, ma è con la più claustrofobica e decisamente più lunga (8:28 min) “Ghost Albatross”, che il quartetto australiano inizia col mettersi a nudo tra atmosfere post rock, spaventosi chiaroscuri orrorifici, cambi di tempo improvvisi e (in)frazioni rumoristiche destabilizzanti, che ci fanno capire il genio di questa band davvero multisfaccettata che sa esattamente come scrivere musica di un certo livello, dotata peraltro di un certo impatto emotivo. La cosa si mantiente anche nei quasi 10 minuti della terza “Twin Snakes in the Curvature”, un pezzo che si presenta con un impianto cinematico-sperimentale davvero inquietante a cavallo fra ambient e noise, in grado di annebbiare il cervello come la peggiore delle sostanze psicotrope. Superato questo trip da funghi allucinogeni, la band pensa bene di infarcire il tutto con il pianoforte e a destabilizzarci ancor di più con partiture jazzistiche davvero funamboliche. Non sarà semplice venir fuori interi da questa jam session, un po' come se ci fossimo fatti un tuffo in un frullatore gigante e avessimo lottato contro kiwi, fragole e banane giganti. Abbandonata questa parentesi vegana, vengo risucchiato dai due minuti rumoristici di “Seep Into” che ci accompagna a “Lake Orb Altar” e alle sue derive soniche desolanti, quasi uno scatto del deserto che è emerso dal prosciugamento del lago d’Aral, una visione apocalittica figlia del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo che brucia da un lato mentre l'altro viene innondato da acque tumultuose. E questa song brucia, genera emozioni contrastanti, turbamenti interiori, un malessere da cui sarà difficile sfuggire, sebbene la melodia nella sua seconda metà, provi a stemperare l’apocalisse incombente. Ma poi, la ritmica avanza veloce, il basso pulsa come quando il cuore mi esplode nel petto dopo una scalata di una montagna, i giochi di synth diventano ipnotici e le chitarre frastornanti. Ci pensa “Trinket Forest” a ripristinare l’equilibrio con suoni da tempio buddista (o forse giardino zen). Il rumorismo torna sovrano in “Lamprey Strings” e si va mescolare con un’improvvisazione sperimentale davvero da capogiro in grado di rovesciare pensieri, parole ed emozioni. Se avessi scalato l’Everest sarebbe stato decisamente più semplice e invece farsi inghiottire dalle chitarre caustiche di “Bush Wallaby”, con quei suoi giochi di piano e batteria, diventa quasi una delle cose più complicate da affrontare, visto che davanti ci sono altri tre brani per oltre 20 minuti di musica: dal pianoforte impazzito della spettrale “Folded Into”, suonato da un fantasma in un castello maledetto, alle atmosfere da incubo di “The Mantle”, per terminare con la lunghissima (oltre 11 minuti) title track, in grado di darci il definitivo colpo del ko, tra suoni morbosi, deviati e schizofrenici che non pensavate potessero esistere su questa Terra. Semplicemente pericolosi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk! Records – 2023)
Voto: 77

https://ttol.bandcamp.com/album/oscillating-forest

martedì 8 agosto 2023

Kodiak Empire - The Great Acceleration

#PER CHI AMA: Math Rock/Prog
Gli australiani Kodiak Empire tornano sul luogo del delitto con un nuovo e breve (mezz’ora tonda tonda) quarto album, sotto la super visione della Bird’s Robe Records. ‘The Great Acceleration’, un concept album che affronta i temi della crisi climatica e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, si presenta come un mix di rock progressive, post-rock, ambient, math e sperimentalismi vari. Il disco si caratterizzata sin dall’iniziale “The Difference”, da melodie evocative e influenze che chiamano sicuramente in causa i conterranei The Mars Volta e gli ultimissimi Tesseract, con un fare a tratti un po’ troppo pop per i miei gusti. A far da contraltare a queste sonorità un po’ ruffiane, ci pensano però giri di chitarra ipnotici, che sembrano trarre linfa vitale dal math rock ma qualcosina anche dal djent, cosi come pure quei lunghi e poderosi assoli dall’elevato tasso tecnico, tengono la band di Brisbane ancorata a un rock decisamente robusto. E “Within the Comfort” non fa altro che ribadirlo, con quel suo inizio tumultuoso e super distorto, anche se non appena entra la morbida voce del vocalist, il suono diventa decisamente più mellifluo. Non temete comunque, visto che nel corso del brano ci sarà un’alternanza di tempi, sorretti da ritmiche sostenute, sghembe ed imprevedibili che indirizzano i nostri nuovamente verso lidi math. E questa fondamentalmente sembra essere la forza dei Kodiak Empire, ossia accostare l’irruenza del rock progressivo (che tende talvolta a sfociare nel metal) con il pop. Certo, qualcuno storcerà il naso alla parola pop (me compreso), ma questa è la peculiarità del quintetto australiano. Un pezzo come “Animist” mette in luce un’anima più alternativa, ma la cosa che più mi ha colpito qui è in realtà un drumming estremamente fantasioso coniugato ad un intrigante gioco di atmosfere guidate da un synth dai tratti malinconici. “Maralinga”, complice la sua breve durata, la leggo più come un ponte tra “Animist” e la conclusiva “Marcel”, anche se nei suoi 141 secondi, condensa il lato più sperimentale della band, tra sinuose partiture atmosferiche, turbamenti noise e schitarrate metalliche. In chiusura, la già citata “Marcel” si srotola lungo i suoi quasi nove minuti, attraverso atmosfere suffuse, ammiccamenti pop (complice anche qui il cantato eccessivamente ruffiano del frontman), cambi di tempo bizzarri e gagliarde accelerazioni, peraltro in combinazione con un inatteso growling, che alla fine spariglia completamente le carte in tavola e ti spingono a volerne di più. Invece, il disco si ferma qui, come se voglia ingolosire gli ascoltatori in vista di un nuovo travolgente lavoro dei Kodiak Empire. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 73

Big Red Fire Truck - Trouble in Paradise

#PER CHI AMA: Hard Rock
Un bel tastierone in stile “Jump” di Van Halen, apre ‘Trouble in Paradise’ degli australiani Big Red Fire Truck, un quartetto che si presenta come la più classica delle band glam rock anni ’80 (basti solo vedere la cover dell’album), con tanto di membri (un paio almeno) dai capelli cotonati e dai riccioli d’oro. La title track ci consegna un gruppo di musicisti che strizza l’occhiolino a Bon Jovi e già mi sento male. Che diavolo succede, la Bird’s Robe Records che da sempre mi ha abituato ad uscite di un certo calibro in ambiti stilisti decisamente differenti dal qui presente, ora mi propone hard rock che puzza di stantio? Rimango esterrefatto di fronte a questo lavoro, non tanto per i contenuti peraltro triti e ritriti nel corso degli ultimi 50 anni da migliaia di altre band e che quindi per il sottoscritto non hanno più niente da dire, ma per la scelta fatta proprio da parte dell’etichetta di Sydney, lontana anni luce dai propri elevatissimi standard. C’è poi chi afferma che questo genere di sonorità ora vadano per la maggiore, per quanto mi riguarda mi domando in quale galassia questo accada, io questa robaccia non la vorrei sentire nemmeno mentre sto percorrendo la mitica US Route 66, viaggiando a 70 miglia orarie, finestrini abbassati e picchiando con le mani, al ritmo della rockeggiante “Love Bite”, la fiancata della mia super muscle car. Mi spiace, i quattro musicisti di Sydney potranno essere anche bravi a suonare, saranno divertenti dal vivo, magari avranno testi impegnati (ma dubito visti titoli quali “Miami Skies” e “Hot Summer Nights”) ma un genere che ammicca a Def Leppard, Bon Jovi, Poison, Aerosmith e Motley Crue, credo rappresenti esclusivamente la colonna sonora dei miei peggiori incubi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 50

https://bigredfiretruck.bandcamp.com/album/trouble-in-paradise

domenica 11 giugno 2023

Klidas - No Harmony

#PER CHI AMA: Progressive Jazz Rock
Una band italiana alla corte della Bird's Robe Records? Da non crederci. Eppure i marchigiani Klidas (parola ceca che sta per gigante di silenzio) ci sono riusciti ed eccoli quindi approdare alla label australiana con questo 'No Harmony', album che combina un rock sperimentale con stilettate progressive e fughe jazz, il tutto inebriato da fragranze avanguardistiche. Questo almeno si evince dalle note iniziali di "Shores", un pezzo di un certo spessore strumentale che mi fa storcere il naso per la sola mancanza di un vocalist che avrebbe deliziato i palati dei più pretenziosi,  incluso il sottoscritto. E poco importa se musicalmente il sestetto nostrano ci diletta con splendidi tunnel sonori dove sax, chitarre, synth e percussioni sembrano avvolgerci in un delicato abbraccio, qui avrei desiderato una voce a solleticare i miei sensi e a rimpinguare quelle sonorità oniriche che si palesano sul finire del pezzo. "Shine" giunge però in mio aiuto con la comparsa finalmente di un vocalist, mentre la musica continua su sonorità similari alla traccia d'apertura, evidenziando peraltro qualche similitudine con gli In Tormentata Quiete più sperimentali e progressivi. Ai nostri piace comunque dare largo spazio alla strumentalità, spesso raffinata, che si concede anche il lusso di qualche porzione atmosferica che fa da contraltare a momenti più tosti, in cui la pesantezza delle chitarre, forse in taluni casi troppo caotiche, viene stemperata dall'azione del sax. Si prosegue con "Not to Dissect", e un incipit ubriacante che mostra come ingredienti di base ancora jazz e rock, con quest'ultimo a continuare in quell'opera di tirarci schiaffoni ben assestati in pieno volto, peraltro sempre ben assistito da un sax dai tratti invasati. "Arrival" sembra essere la quiete prima della tempesta: un percussionismo garbato che lentamente prova ad accelerare i ritmi, senza mai prendere realmente il volo, anzi declinato verso atmosfere più rarefatte laddove le vocals s'infiltrato nella matrice musicale. Poi largo spazio ai virtuosismi, agli assoli di sax, al manifestarsi di una spoken word di una gentil donzella giapponese che parla di un percorso d'ascensione ad una dimensione superiore. Questo almeno quello che mi ha decifrato il buon vecchio e utilissimo google translator. Con "Circular", si pesta duro sull'acceleratore grazie ad un caleidoscopico jazz rock che per certi versi mi ha evocato i The Mars Volta, ma i nostri sono abili musicisti, in grado quindi di alterare con una certa disinvoltura il flusso sonoro, spezzettandolo ora con break atmosferici o con accelerazioni progressive e ancora con dirompenti scariche elettriche. A chiudere l'opera arriva la psichedelica "The Trees are in Misery", con i suoi caustici giri di chitarra, repentini cambi di tempo, un ottimo lavoro alle tastiere e molto molto altro, per cui vi lascio il compito di esplorarne ulteriori contenuti. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 74

https://klidas.bandcamp.com/album/no-harmony

venerdì 5 maggio 2023

Mushroom Giant - In a Forest

#PER CHI AMA: Post Rock
Li avevo recensiti due anni fa in occasione del decennale dell'etichetta Bird's Robe Records, con l'album 'Painted Mantra', uscito originariamente nel 2014. Li ritrovo oggi con un album nuovo di zecca, 'In a Forest', ed un sound che non si discosta poi di molto da quella che è l'architettura post rock di fondo degli australiani Mushroom Giant. Il "Fungo Gigante" ci offre sette nuove tracce, che si rivelano introspettive nel loro incedere sin dall'iniziale "Owls", che richiama inequivocabilmente in causa i due gufi ritratti in copertina. I suoni dicevo, sono alquanto introversi, ma ci stanno se l'intento è quello di narrare di una foresta e dei suoi misteriosi abitanti. La band di Melbourne è sapiente nel miscelare post rock con una buona dose di dark, progressive e suoni cinematici vari, per quello che è il marchio di fabbrica del quartetto australiano. Poi, chi li conosce, sa perfettamente cosa aspettarsi dall'ascolto di questo nuovo capitolo: le atmosfere spettrali che si respirano nella seconda metà della prima traccia sono un esempio delle caratteristiche dei nostri ma non solo. Io li ricordo anche come abili costruttori di break di pink floydiana memoria e a tal proposito mi viene in soccorso la settantiana e nebulosa "And the Earthly Remains". "Vestige" è caratterizzata da una stratificazione di chitarre che esibisce la tecnica-compositiva dell'ensemble, che necessiterebbe tuttavia di un bravo vocalist per dare una narrazione a quello che la band allestisce in sede musicale, e per tirarci fuori dalle sabbie mobili di un genere, a volte, troppo spesso ingessato nei suoi rigidi paradigmi. "Earthrise", song da cui è stato peraltro estratto un video, parte lenta e malinconica, ma sarà in grado di aumentare i giri del motore grazie a una splendida chitarra solista che si sovrappone a una ritmica più ordinaria. "Aire River Rapids" sembra prendere le distanze dal post rock dei primi pezzi, risultando decisamente la più pesante delle tracce, complice un robustissimo riff e un drumming bello potente. Ah, una voce un po' urlata, come avrebbe fatto comodo nelle insenature di questo pezzo, e forse ancor di più nella successiva e sinistra "Mountain Ash" che sfodera un grande lavoro sia alla chitarra solista, e ancor di più a quella ritmica, che improvvisamente s'interrompe per cedere il passo a "And the Earthly Remains". "The Green Expanse" propone il secondo video di questo lavoro: un'apertura dai tratti ambient e poi i classici suoni dilatati del post rock, per una chiusura che ha il solo difetto di risultare un po' troppo scontata nei suoi contenuti, nonostante l'eccelso lavoro svolto a livello di suoni. Il fatto è che, attenendosi troppo agli standard del genere (e penso anche al tremolo picking proposto qui), il rischio è quello di sapere già cosa ci sarà ad aspettarci nell'evoluzione di un brano, e per questo opterei, anche a piccolissime dosi, all'inserimento di una voce o anche di un parlato, che dia maggiore imprevedibilità ad un disco che ha il solo rischio, di risuonarvi nelle orecchie come già sentito. E sarebbe un peccato. (Francesco Scarci)

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 1 febbraio 2023

Toehider - I Have Little To No Memory of These Memories

#PER CHI AMA: Prog/Opera Rock
È decisamente singolare la scelta dei Toehider di rilasciare un album con un'unica song della durata di 47 minuti e 47 secondi che nel minuto e mezzo iniziale sembra essere una sintesi dei Queen di "Bohemian Rhapsody", tra cori e suoni che evocano la famosissima hit della band britannica. Terminata la messinscena, parte il lavoro che non ti aspetti, ma a dire il vero, noi la one-man band australiana la conosciamo fin dal 2012, quando recensimmo 'To Hide Her' e già sottolineavamo le eccelse qualità del geniale progetto di Michael Mills. Qui non possiamo far altro che confermare tutti gli aspetti positivi di quella che è a tutti gli effeti un moderna opera rock, che percorre 50 anni di musica prog rock e metal, narrando la storia di un uomo, una donna, un enorme pennuto, uno stupido alieno e due barche modificate per un confronto spaziale. Tutto chiaro no? Ecco, se queste sono le basi liriche di questo album, potrete immaginare anche quanto possa essere imprevedibile il contenuto musicale, tant'è che l'artista australiano ha previsto addirittura due finali alternativi dell'opera, uno su cd e l'altro nel vinile. Un fottuto genio. Un genio che sarà in grado di coinvolgerci in un viaggio sonico che farà sicuramente la gioia di tutti quelli che amano sonorità alla Devin Townsend o che adorano gli Ayreon, senza dimenticare poi le assonanze vocali con certe cose dei Queen e ancora, echi retrò alla Yes, colonne sonore, rimandi a Ronnie James Dio (minuto 18, ditemi che ne pensate), ruffianate di ogni tipo, passaggi folk, garage rock, tuffi in un passato davvero lontano, omaggi vari agli anni '80, riffoni djent sorretti da orchestrazioni sinfoniche, techno death (con tanto di voce growl) e ancora, una serie infinita di mash-up che inglobano appunto 50 anni di musica di ogni tipo e che mi spingono semplicemente ad invitarvi a mettervi comodi, indossare le cuffie e lanciarvi in questo viaggio nel tempo e individuare poi il finale che più vi aggrada. (Francesco Scarci)

giovedì 14 aprile 2022

The Sea Shall Not Have Them - Debris

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient
Per chi non ha ancora le orecchie sature di post rock semi-strumentale, ecco che un po' di nuova musica arriva dall'Australia, un luogo che sembra essere la fucina perfetta per questo genere musicale. Loro sono un duo, si chiamano The Sea Shall Not Have Them e 'Debris' è il loro secondo album che arriva a sette anni distanza dal loro debut 'Mouth'. Quando c'è post rock e Australia poi, non si può non citare la Bird's Robe Records che ne produce quasi tutte le uscite. Il lavoro dei nostri include otto tracce che con l'iniziale traccia omonima, mi prende il cuore, lo lacerano con un condensato di musica estremamente malinconica e lo lasciano accartocciato per terra come un feto abbandonato per la strada. Non un'immagine piacevole, me ne rendo conto, ma l'effetto forte e commovente della musica dei The Sea Shall Not Have Them ha generato in me queste immagini tremebonde. Con la successiva "Lower the Sky", dove compare il featuring di Ed Fraser alla voce, ci troviamo di fronte ad un brano enigmatico, introspettivo e irrequieto, dal flavour tipicamente new wave, contraddistinto da una pulsante linea di basso. Figo. Peccato poi che la band torni fin troppo a normalizzarsi con "YXO", un brano che francamente ha ben poco da offrire nella sua minimalistica ritmica ridondante. Già meglio "Splinters" che trae nuovamente linfa vitale da sonorità new wave, anche se questo insistere con i medesimi giri di chitarra (cosa che accadrà anche nelle successive "Everything Melts", dove peraltro ci sarà l'ottimo featuring alla chitarra di Ian Haug dei Powderfinger e nella noiosetta "Ash Cloud") non è che giovi parecchio alla lunga ai nostri. In chiusura ecco "Underneath", l'ultimo psichedelico atto di un disco a tratti intrigante, in altri frangenti forse troppo normale. Spunti interessanti se ne trovano qua e là a dire il vero ma io avrei osato un pizzico in più. (Francesco Scarci)

giovedì 3 marzo 2022

Furnace and the Fundamentals - A Very Furnace Christmas

#PER CHI AMA: Party Cover Songs
Forse arriviamo un po' lunghi per celebrare il Natale, ma che ci volete fare, la segnalazione di 'A Very Furnace Christmas' l'ho ricevuta solamente un paio di settimane fa. E a farsene portavoce è stata l'etichetta Bird's Robe Records che ripesca un disco del 2019 degli australiani Furnace and the Fundamentals. I nostri si divertono qui a riproporre storici pezzi della musica pop rock in formato natalizio, divertente per passare forse una serata con gli amici e niente di più, ballare magari con le note danzerecce di "YMCA (Christmas Edition)", pezzo per cui peraltro i nostri pazzoidi amici ne hanno anche estratto un video. Per non menzionare poi "Gangsta's Paradise" del rapper Coolio, storico pezzo del '95. E ancora altri brani che potreste conoscere e per i quali potreste farvi venire i crampi allo stomaco, come è successo al sottoscritto, sono "Jingle Bells" in una versione scatenata e scanzonata quasi punkeggiante, oppure le troppo natalizie "We Wish You A Merry Christmas" o "Silent Night" che mi danno il definitivo Ko per l'ascolto di questo stra(vaga/zia)nte lavoro. Meno male poi che a tirarmi su il morale arrivano "You Shook Me All Night Long" degli AC/DC e l'arrogante "Giving In The Name Of (Killing In The Name Of )" dei Rage Against the Machine, francamente una boccata d'ossigeno per evitare che questo lavoro facesse una brutta fine. Capisco la rivisazione divertente e aggressiva che possono aver fatto in passato i francesi Carnival in Coal in 'French Cancan', ma qui ci troviamo musica dance pop che non dovrebbe stare nemmeno su questo sito. Siete curiosi di sapere chi sono gli altri artisti rivisitati dai Furnace and the Fundamentals? Cold Play, Billy Joel, Depeche Mode (sacrilega la versione di "Just Can't Get Enough"), Paul Simon, i Queen con uno spezzone di 48 secondi di "Bohemian Rhapsody" e molti altri. Ora posso sentirmi male del tutto. Prendete questo lavoro per quello che è, una divertente rivisitazione natalizia di 18 storici pezzi per un solo ascolto curioso e nulla di più. Mi sa tanto che non darò un voto. Anzi, ho deciso. Senza Voto è la mia sentenza. (Francesco Scarci)

lunedì 21 febbraio 2022

Closure in Moscow – Pink Lemonade

#PER CHI AMA: Prog Rock/Psych/Alternative
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, come abbiamo riferito di recente, si è presa l'incarico di ristampare la discografia dei Closure in Moscow e dopo i primi due ottimi lavori ci troviamo di fronte alla loro ultima opera di studio, uscita qualche anno fa, precisamente nel 2014. L'eclettica band australiana fa del suo bagaglio musicale un format esasperato, mescolando generi e sonorità a più non posso, dando vita ad un lavoro spettacolare e complicato allo stesso modo. Potrei dire che 'Pink Lemonade' sta ai Closure in Moscow come 'Sgt Pepper' s Lonely Hearts Club Band' sta ai The Beatles, ovvero, il massimo sforzo creativo dove una band possa cimentarsi nella sua carriera. Chiarisco subito che musicalmente i due album non sono accostabili per ovvie ragioni ma come attitudine si possono avvicinare, soprattutto nelle rispettive gesta compositive che di fatto puntavano a superare i confini della propria arte. Nel caso dei Closure in Moscow, il mescolare R&B, progressive rock, funk, hard rock, elettronica, blues e pop punk, in una veste che mi ricorda una sorta di musical d'altri tempi, ha dato i suoi buoni frutti, e la sua orecchiabilità va spesso e volentieri a braccetto con la complessità dei pezzi, costantemente baciati da una positività solare trascinante e musicalmente colta. Quindi, ricapitolando, tra una miriade di rimandi sonori, vi possiamo trovare paragoni con i Coheed and Cambria, ma anche con la teatralità progressiva di 'Suffocating the Bloom' degli Echolyn, l'alternative degli Incubus e perfino piccoli sbocchi creativi e progressivi alla 5UU'S, e poi blues, free jazz e free rock. L'insieme si svolge con una dinamica notevole vista la qualità dei musicisti in questione, con la voce impareggiabile di Christopher de Cinque che fa venire i brividi in "Mauerbauertraurigkeit" o nel duetto con Kitty Hart in "Neoprene Byzantine", un brano spettacolare di circa tre minuti e mezzo, impossibile da descrivere, ma che caratterizza l'intero disco, e che potrei provare a definire solo ricordando due brani lontanissimi tra loro. Un mix tra "It's Oh So Quiet", nella versione di Björk, e "Goliath" dei Mars volta, suonato con un mood seventies caldo ed esplosivo. Alla fine, 'Pink Lemonade' è un disco che sfiora la perfezione, anche se in un calderone così stipato di note, generi e suoni, è sempre difficile trovare il bandolo della matassa, il filo conduttore per capire un'opera del genere. Forse, il vero segreto per farsi catturare da questo album, è proprio quello di farsi trasportare e stupire dalle sue coordinate nascoste, apprezzare lo stile di questa band che ha osato il salto nel mainstream internazionale senza rinunciare alla propria essenza di band crossover a 360 gradi, musicisti, esploratori e manipolatori di universi musicali diametralmente opposti richiamati in maniera esemplare ed esaltante. Un disco complicato e delizioso, un disco da veri appassionati di musica libera. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2014/2022)
Voto: 84

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/pink-lemonade

mercoledì 16 febbraio 2022

We Lost the Sea - Departure Songs

#PER CHI AMA: Post Metal/Rock
'Departure Songs' rientra in quello che ormai definisco abbonamento mensile con la Bird's Robe Records (qui in collaborazione con Art as Catharsis) e nella riedizione di vecchi (ma non cosi vecchi) lavori dell'etichetta australiana, riproposti per celebrare il compleanno della label di Sydney. I We Lost the Sea non sono poi una novità su queste pagine, avendo in precedenza recensito, peraltro sempre il sottoscritto, sia 'Triumph & Disaster' che 'The Quietest Place on Earth'. Quindi potrei già dire di sapere cosa trovarmi tra le mani. Tuttavia non è proprio cosi, considerando che l'opener del disco, "A Gallant Gentleman", ha fatto da colonna sonora ad un episodio della serie tv Afterlife e già questo potrebbe attribuire una certa rilevanza all'opera del sestetto di Sydney. Per chi non li conoscesse (ah che bestemmia), i nostri sono una band che ha mosso i propri passi nei paraggi di certo post rock/metal strumentale sporcato da venature post-hardcore. Eppure, la veste più graffiante dell'ensemble non compare nelle delicatissime note dell'ouverture, un pezzo che narra la drammatica vicenda di Lawrence Oates, un esploratore britannico che morì durante la spedizione al Polo Sud. Il brano si muove su un percorso sognante e delicato, con tanto di coro di voci eteree che si materializza a metà brano, prima che il sound si faccia più magniloquente, evocativo, epico, trasognante e malinconico. Con "Bogatyri" (termine che indica i guerrieri eroici della tradizione slava) si rimane nei paraggi del medesimo sound con melodie soffuse e dilatate, affidate semplicemente ad eleganti ed ipnotici giri di chitarra che per oltre quattro minuti si fisseranno nella testa con la loro ridondanza ritmica, prima di inspessirsi, crescere, minacciare, accelerare, innervosirsi in un vortice emozionale che non lascia ampi margini di fuga, tra chitarre riverberate e altre ben più pesanti. Peccato solo manchi quella voce graffiante che mi aveva conquistato ai tempi di 'The Quietest Place on Earth', ma che poi fu costretta a lasciarci per lidi più lontani (RIP). Dopo i quasi 12 minuti di "Bogatyri", ecco i 17 di "The Last Dive of David Shaw" per un'altra maratona sonora che evoca la storia di David Shaw, uno scuba diver australiano che morì per problemi respiratori durante il tentativo di recuperare il corpo di un altro sommozzatore, morto anni prima. Potete pertanto immaginare come la musica rifletti una situazione angosciante, che tra chiaroscuri, bianchi e neri e saliscendi ritmici, dipinge una storia tragica, ossia l'ultima missione di David prima di morire. Una melodia sconquassante, suoni vertiginosi, ad un certo punto anche furenti ed esplosivi, che caratterizzano egregiamente la proposta dei We Lost the Sea. Si arriva cosi ad un'altra montagna da scalare, i quasi 24 minuti di "Challenger part 1 - Flight" che, insieme alla conclusiva "Challenger part 2 - A Swan Song", narrano l'ultima storia di questo drammatico lavoro, ossia l'esplosione in cielo dello Shuttle Challenger nel 1986, appena dopo il decollo. Ricordo bene quelle tragiche immagini e la musicalità dei nostri è affidata ad una parte parlata iniziale con le voci del personale di Cape Canaveral e a successivi landscape ambientali che riescono solo a farmi vagare con la mente ripensando a quell'evento e alla morte in diretta di quegli astronauti. La musica inizia finalmente verso il nono minuto e lo fa sempre con somma eleganza, quella che ha contraddistinto l'album sin qui. Atmosfere sinistre, le chitarre che nuovamente si perdono in loop ritmici, prima che la situazione si sblocchi con melodie più pulite ed un assolo da favola per un finale che continua con un climax costantemente in ascesa, che rischia però di perdersi in un brano forse eccessivamente prolisso. In chiusura, l'ultimo atto che ripristina una durata più umana ad una musicalità che sin qui ci ha regalato comunque grandi emozioni e che non tarderà a donarne anche nel corso di questo pezzo che sancisce la grande emozionalità di cui i We Lost the Sea si fanno portatori. I riflessi musicali che ritroviamo qui sono quelli del post rock malinconico che avrà un crescendo forse senza precedenti nel disco e troverà il suo culmine di drammaticità nelle parole di Donald Reagan e il suo messaggio alla nazione americana nel celebrare quegli eroi che "sciolsero i duri legami della terra per toccare il volto di Dio". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Art as Catharsis - 2015/2021)
Voto: 80

https://welostthesea.bandcamp.com/album/departure-songs

giovedì 27 gennaio 2022

Maybeshewill - No Feeling is Final

#PER CHI AMA: Post Rock Cinematico
Stranamente, non c'è solo la Bird's Robe Records dietro alla release degli inglesi Maybeshewill, forse perchè sono inglesi, o forse perchè 'No Feeling is Final' è un nuovo album, fatto sta che qui si propone quel post rock strumentale che è tanto nelle corde della label australiana, qui in cooperazione con la The Robot Needs Home Collective, la Wax Bodega e la New Noise. Un pacchetto di etichette per supportare la nuova release di questa band originaria di Leicester che fa valere la propria classe già dall'opener "We've Arrived at the Burning Building", un condensato emozionale di post rock sofisticato, evocativo, malinconico e sinfonico, con quella sua brillante miscela di suoni rock combinati ad arte con strumenti ad arco. Una melodia che sembra provenire dall'estremo oriente è quella che apre "Zarah" e poi un riffing teso che mi ha evocato quasi i Dark Tranquillity più melodici. Un passaggio breve in effetti, spezzato poi dalle spoken words di una gentil donzella e da una melodia cinematica che ci accarezzerà per tutto l'ascolto di questo lavoro straordinario, uno dei migliori in ambito post rock dello scorso anno. Splendidi gli archi di "Complicity", struggente e catartica. Ancora meglio la tiepida melodia di "Invincible Summer", una colonna sonora atta a farci sognare ad occhi aperti, mentre in sottofondo il rock si miscela a progressioni di natura ambient. Il flusso musicale sembra comunque seguire un suo filo logico, quasi una successione di immagini di violenza, calma e devastazione, in cui incanalare la verve più o meno energetica della band, che in 'No Feeling is Final' vuole trasmettere un messaggio di solidarietà per il mondo che si sta avviando, non troppo lentamente, verso l'autodistruzione, un messaggio che nasce da una potente forma di frustrazione. I pezzi proseguono con grande disciplina e caratura tecnica: in "Refuturing" vede addirittura la comparsa di un sax, in un pezzo pazzesco, mentre "Green Unpleasant Land" ammicca ad un certo neo classic folk celtico con sofisticazioni elettroniche ed un roboante finale di chitarre che ergono un muro quasi invalicabile di suoni. Questo è l'acme del disco, da qui le acque sembrano calmarsi e fluire un po' più serenamente verso il timido finale pianistico di "Tomorrow". Nel mentre, mi raccomando non fatevi ingannare dal nefasto riffing che chiude "Even Tide", una vera bomba per un super disco. (Francesco Scarci)

(The Robot Needs Home Collective/Wax Bodega/New Noise/Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 84

https://mybshwll.bandcamp.com/album/no-feeling-is-final

mercoledì 26 gennaio 2022

Echotide - Into the Half Light

#PER CHI AMA: Post Rock Cinematico
Arrivano da Brisbane (Australia) questi Echotide con un lavoro uscito originariamente nel 2017 e riproposto ad inizio di quest'anno dalla Bird's Robe Records. E con loro, trema la Terra. Soffonde l’energia. Dilaga il caos. Vibra nell’oscurità questo suono macellato dall’attesa ed improvviso nella spinta dalla propulsione ritmica. Cosi si apre l’iniziale "Into the Half Light" che ruggisce sbranando ed accarezzando senza posa. Brividi metallici e carezze ridondanti, ipnotizzano con quel sound votato ad un post rock emozionale. Cicuta e zucchero per volontari sinestesici. Incalza la voce silente del suono, afferra la gola quel suo gioco iperbolico. Non sarò io a raccontavi l’epilogo. Ogni racconto apre mente e sensorialità. Siete liberi. Lo dobbiamo essere. Abbiamo appena cominciato a percorrere l’ossimoro suadente del paradiso infernale quando si dipana "Another Road". La seconda traccia si presenta assai affine con l’esordio dell’album. Non ci separiamo dalle acque pericolose in cui Ulisse ha lottato con le sirene. Un sonoro assoluto, strumentale, elettrificato a dovere che non evolve, non cerca il funambolico, semplicemente lascia interpretare lungamente riflessioni e corde su cui camminare tra notte e buio. Cambia lo stato dell’anima istantaneamente con "Her Back to the Sun". Incalzante. Cinematica. Una colonna sonora che non delude. Semplicemente un ottimo prologo ad un film quotidiano da intenditori del genere dark ambient. Veniamo a "Cracks in the Wall of a Tempory Home". Musicale. Un tinnuolo che racconta improvvisazione meditativa a lungo sperata. Il pezzo poi si apre come un calice di vino aspettato e lento nell’ossigenarsi. Cambiamenti dinamici organolettici nell’accorpare sonorità. Sino a che le metafore smettono i propri disegni per accordare suoni graffianti, spasmodici, rimbombanti e delicati. Un multipolarismo in musica. Da "Illumina" traspaiono invece velature dagli accordi cementati, prossimità leggermente descritte da suoni satellitari, rivisitazioni di coscienza e deliri lenti includenti, riflessioni tra le parole della musica ed il silenzio delle parole. Mi interessa molto questa "New Beacons Cast to Old Horizons". Oscura. Invasiva. Vibrante. Intelleggibile. Una traccia in cui il panico si sente dal primo secondo. Un muoversi di intrecci in cui si può andare oltre l’oscurità per trovare la luce. Un climax scomposto e pregiato in cui perdersi senza bussola perché è la traccia stessa ad essere la stella polare. Il nostro viaggio termina, ma non finisce, con "No Soch Thing as Monster". Come ogni viaggio la nostalgia fa da sposa. Eppure il matrimonio con l’album è presente in ogni traccia. Vi lascio con parole lente, epidermiche, lentamente scolpite nella roccia dell’ascolto multisensoriale. Così come lo è stato questo album per me. (Silvia Comencini)

(Bird's Robe Records - 2017/2022)
Voto: 75

https://echotide.bandcamp.com/album/into-the-half-light

sabato 8 gennaio 2022

Sleepmakeswaves - Live at the Metro

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Non amo particolarmente gli album dal vivo, figurarsi poi di un lavoro interamente strumentale. Tuttavia, riflettendoci bene sopra, quella live potrebbe essere la sede che meglio si adatta a proposte di questo tipo, per gustare in modo più diretto il feeling che la band vuole emanare direttamente ai suoi fan. E la band di oggi, gli australiani Sleepmakeswaves, non sono proprio gli ultimi sprovveduti, essendo tra le realtà più interessanti della scena post rock mondiale. 'Live at the Metro' poi cattura un concerto tenutosi a casa loro, a Sydney, al Metro Theatre nel 2015 e prova con la sola musica, a farci immaginare le vibrazioni, l'atmosfera e l'energia di quella che deve essere stata una magica notte. Nove i pezzi proposti dai nostri, che già un paio di volte abbiamo recensito su queste stesse pagine. Largo alla quindi musica di "In Limbs and Joints" ad aprire questo lavoro che rientra tra i dischi da riscoprire per l'etichetta Bird's Robe Records. L'interazione col pubblico aiuta immediatamente a calarsi nella dimensione live, il resto lo fa una musica cangiante che si muove tra il post rock intimista e malinconico dell'opening track, con i suoi riverberi chitarristici, le sue mutevoli percussioni e la successiva e deflagrante, almeno inizialmente, "Traced in Constellations". Poi spazio a frangenti shoegaze, progressive, chiaroscuri mai stucchevoli ma anzi di grande impatto emotivo, splendide melodie che ci accompagneranno fino alla conclusiva "A Gaze Blank and Pitiless as the Sun". In mezzo grandi pezzi, dai singoli "Great Northern" e "Something Like Avalanches" che quasi non meritano nemmeno menzione (eppure andatevi ad ascoltare il pianoforte introduttivo della prima con quei suoi ritmi quasi esotici), o il cinematico sound della robusta "How We Built the Ocean", un trip fatto di suoni catartici, post rock o semplicemente rock (mi sembra addirittura di scorgere un riffing che richiama gli U2 ad un certo punto), che alla fine esibiscono tutte le qualità, emotive e tecnico-strumentali, di un ensemble costituito da ottimi musicisti, che possono anche fare a meno di un vocalist per piacermi. E allora fidatevi del sottoscritto, ma soprattutto fidatevi degli Sleepmakeswaves e del loro sound vibrante ed eclettico che avrà ancora modo di stupirvi con l'imprevedibilità di "Perfect Detonator" o la forza di "Emergent". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 76

https://sleepmakeswaves.bandcamp.com/album/live-at-the-metro

mercoledì 5 gennaio 2022

Closure in Moscow – First Temple

#PER CHI AMA: Indie/Prog Rock
Poco tempo fa avevamo presentato la ristampa, ad opera della Bird's Robe Records, dello splendido primo disco di questa band australiana, amatissima in patria e capace con questo secondo album intitolato 'First Temple', di arrivare al primo posto in classifica, come miglior album nella categoria hard rock/punk indipendente, agli AIR awards del 2009. La band alla fine del 2008, si sposta in blocco negli Stati Uniti per continuare la fruttuosa collaborazione con il produttore Kris Crummett, che già nel precedente, 'The Penance and the Patience', aveva dato alla luce un ottimo debutto per la giovane band di Melbourne, che in questo modo rinvigorisce il proprio sound, aumentando il cast degli strumenti usati e la qualità di produzione, per un lavoro che risulterà più elaborato, levigato al meglio, meno spigoloso e più accessibile, coloratissimo come la sua splendida copertina, variegato e di moderna visione, un mix perfetto per non passare inosservati e creare una sorta di marchio di fabbrica definitivo per i Closure in Moscow. Un modo di vedere il prog rock contaminato da visioni psych, hard rock, indie punk, con suoni caldi e profondi, voci che incantano e una timbrica sempre pulsante. L'intensità della musica, che in tutte le sue diversità di stile, viene proposta e sviluppata ovunque nel modo migliore, mostra una capacità di esecuzione e di composizione al di sopra della media (ascoltatevi "Afterbirth" e ditemi cosa ne pensate!). Una proposta musicale che non mostra lacune, che si fa ascoltare a tutto tondo senza perdere mai lo smalto, brano dopo brano, ed anche se il suo aspetto risulta essere evidentemente volto al mainstream, niente lo rende banale o derivativo, anche oggi che ha superato il decennio di vita dalla sua prima uscita, via Equal Vision Records e Taperjean Records nel 2009. I richiami sono al solito rivolti ai The Mars Volta, ai Coheed and Cambria e ai Pain of Salvation, avvolti da un'aurea di indie intelligente e fresco alla Byffy Clyro (stile 'Infinity Land'), ma tutto filtrato dall'amore per il prog rock dei seventies ed il virtuosismo acrobatico spalmato all'interno delle coloratissime composizioni, in perfetta sintonia con la classe della band di Claudio Sanchez e soci. Fa scuola il brano "Arecibo Message", una canzone dalle potenzialità enormi. Un disco che all'ascolto risulta accessibile ma assai complicato, divertente e sofisticato allo stesso modo, un album pretenzioso, anche a livello stilistico (non tutti si possono permettere un brano in acustico come "Couldn't Let You Love Me"), ma studiato con un sound fresco ed evoluto, per essere ascoltato con facilità e valutato come un piccolo gioiello, anche dopo numerosi ascolti, un album che supera a pieni voti le aspettative degli amanti del genere. Album da non perdere assolutamente. (Bob Stoner)