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mercoledì 9 settembre 2020

Ottone Pesante - DoomooD

#PER CHI AMA: Death "Brass" Metal
Inizialmente schedulato ad aprile di questo funesto anno bisesto, gli Ottone Pesante hanno dovuto spostare l'uscita del palindromico 'DoomooD' a settembre, causa famigerato Covid-19. Forti finalmente di una etichetta alle spalle, Francesco, Paolo e Beppe, possono tornare a proporre la loro folle musica, quel "brass" metal da loro coniato per l'utilizzo assai atipico degli ottoni e non certo per alcun malizioso riferimento al buon Tinto. Il sound dei nostri si fa ancor più cupo rispetto al recente passato di 'Apocalips' e l'opener "Intro the Chasm" sembra lasciar non troppo spazio a questo presagio, laddove tromba e trombone emanano mefitici suoni di morte. "Distress", la normale prosecuzione dell'intro, sembra allegerire quest'atmosfera funesta, sembra appunto. La song, guidata dagli ottoni di Francesco e Paolo, si inerpica infatti in una serie di granitici "riffoni" (chissà se poi se riff sia il termine corretto) sostenuti dal drumming sempre fantasioso e vivace di Beppe. La traccia è breve e cede presto il passo a "Tentacles", il primo singolo rilasciato dalla band romagnola, che vede peraltro la partecipazione della cantante dei Messa, Sara, in un incedere ipnotico e ansiogeno quanto basta, dove la scena viene rubata dalla suadente performance della soave voce della vocalist, un vero portento. Il pezzo è un fantastico esempio di doom che ricalca le gesta dei primi Candlemass con la sola differenza che qui di chitarre non c'è nemmeno l'ombra, sebbene la pesantezza ritmica potrebbe lasciar pensare ad un muro di chitarre. Il disco continua il suo cammino su ritmiche oscure, a tratti asfissianti ma anche venate di influssi progressive; è questo il contesto in cui cresce e si sviluppa un altro piccolo gioiellino, "Coiling of the Tubas", che ammicca, con gli stridori della sua tromba, agli anni '70, ma anche ad un che degli *Shels di 'Plains of the Purple Buffalo'. Il sound si fa più dinamico e violento nella schizoide "Serpentine Serpentone", dove compaiono le harsh vocals di Silvio degli Abaton. Questa è la vetta dell'album, dalla quale il terzetto sembra scendere dal versante opposto in un cammino comunque arzigogolato, che vede la sua prima angosciante tappa nel noise loopato di "Grave", song stralunata e dal finale circense. Ritmi più lenti e cadenzati vedono in "Strombacea" un delizioso esempio di death mid-tempo in cui gli ottoni (in compagnia del growl del cantante) rendono a livello ritmico molto più che un'abbinata tra sei-corde e tastiere. La song è comunque il ponte che ci conduce a "Endless Spiral Helix", penultimo atto di 'DoomooD', altro lisergico brano dalle forti tinte "tooliane" che ci accompagna al malinconico e mefistofelico epilogo di "End Will Come When Will Ring the Black Bells", la perfetta conclusione di un'opera che aspira giustamente a grandi traguardi. In bocca al lupo ragazzi. (Francesco Scarci)

mercoledì 16 dicembre 2015

Void Of Sleep - New World Order

#PER CHI AMA: Psych Rock/Occult Progressive
Stavolta ho fatto le cose per bene. Ho ascoltato il singolo in streaming per il lancio del nuovo album, sono andato ad uno dei primi concerti del tour (il release party era un po' fuori mano, ma mi pento ancora di averlo perso) e ho preso il nuovo album direttamente dalle mani della band. Questo è la breve cronistoria del mio approccio a 'New World Order', secondo album dei Void of Sleep (VoS). Per chi non li conoscesse, il quartetto di Ravenna si è formato nel 2010 ed ha all'attivo un EP prodotto nel 2011 e il primo album, 'Tales Between Reality and Madness', uscito nel 2013. In questi anni di duro lavoro, la band ha riscosso grande successo, sia sul palco (condividendolo con OM, Unsane, Mondo Generator e tanti altri) che a livello di produzioni. I ragazzotti infatti hanno fatto un percorso impegnandosi costantemente e grazie al positivo allineamento astrale del mondo della musica, ora sono una realtà importante della scena musicale nostrana (e non solo). Diciamo subito che rispetto al precedente album c'è stata un'evoluzione del sound, passando infatti da un mix di doom, stoner, sludge e psychedelic rock ad un metal prog dalle venature occulte. Anche questo secondo lavoro è prodotto dalla Aural Music che non ha esitato un momento a prendere sotto la propria egida una band di tale spessore musicale. I sette brani contenuti nel jewel case, peraltro dalla grafica assai curata, sono un perfetto mix di tecnica, arrangiamenti e qualità sonora, che vi avvolgeranno nelle loro lunghe spire e vi porteranno nell'oscuro mondo della band, fatto di poteri occulti che governano il mondo. Non a caso il primo brano si intitola "Devil's Conjuration": qui i riff di Gale sanciscono l'imperioso avanzare della batteria (Allo) e del basso (Paso, peraltro noto produttore della scena metal) che formano assieme una miscela accattivante fatta di ritmiche incalzanti, distorsioni potenti e appaganti all'orecchio. La voce di Burdo ha una timbrica particolare e camaleontica, prima eterea ed elegante quando i riff sono più leggeri, poi aggressiva e d'impatto seguendo l'evoluzione del brano. Quest'ultimo alla fine è ben fatto e consta di quattro minuti dotati di una progressione costante e convincente che si ascolta con gusto e soddisfazione per i nostri timpani. In "Ordo Ab Chao" (motto massone che significa "ordine dal caos") si inizia in modalità stoner/psichedelic rock, a conferma che i Void of Sleed non rinnegano le proprie radici. Dopo questo breve excursus, riff e melodie riprendono il mood attuale della band, con evoluzioni stilistiche e melodiche in un continuo turbinio sonoro, a rispecchiare il senso del brano che richiama appunto l'ideologia che solo attraverso il raggiungimento del massimo livello di caos, le persone saranno disposte ad un regime di ordine e quindi di potere gestito dagli eletti. Si aggiungono poi momenti di claustrofobia, specialmente nella parte del parlato, dove temporaneamente gli strumenti calano di intensità, ma solo per preparare un ulteriore slancio. Alcuni hanno scritto che i VoS richiamano Opeth e Tool, vero in parte, soprattutto perché la band di Ravenna è riuscita a forgiare un proprio sound e uno stile personale che gli permette di essere ben identificabile. La title track probabilmente rappresenta al meglio la band: otto minuti abbondanti in cui troverete tutta l'essenza mistica dei VoS racchiusa in un vaso pronto a liberare gli spiriti ormai oppressi da troppo tempo. Le linee melodiche sono assai complesse, le chitarre si sovrappongono per qualche battuta, poi si allontanano per seguire i propri arrangiamenti e si ricongiungono più avanti per esplodere all'unisono, mentre batteria e basso si occupano della loro sezione in maniera scrupolosa. Ancora una volta il vocalist interpreta il brano in maniera ineccepibile regalando sempre grande enfasi ai vari passaggi della canzone. In definitiva ci troviamo di fronte ad un ottimo full length, pensato, eseguito e registrato con perizia, da una realtà da seguire ed apprezzare. I VoS hanno fatto la loro parte, ora tocca a noi sostenerli e farli crescere ancora di più. (Michele Montanari)

(Aural Music - 2015)
Voto: 85

giovedì 23 maggio 2013

Ecnephias - Necrogod

#PER CHI AMA: Horror Heavy, Rotting Christ, Septic Flesh
Avete mai provato quella sensazione quando siete a tavola, di voler lasciare il meglio che c’è nel piatto alla fine? Ebbene, prima di ascoltare il tanto atteso ritorno sulle scene dei lucani Ecnephias, ho aspettato qualche giorno, cosi giusto per pregustarmelo un po’, insomma una sorta di “Sabato del Villaggio” come scriveva il buon Leopardi, in cui crearmi le giuste aspettative. Dopo quattro giorni, ho inserito finalmente “Necrogod” nel mio stereo per capire quale evoluzione avesse subito il sound di Mancan e soci. Ecco quindi proiettarmi con l’occulta intro nel mondo enigmatico e mediterraneo della band potentina. Volete sapere cosa ho pensato appena chiusi gli occhi e mi sono abbandonato a “Syrian Desert”? Mi è sembrato che questo prologo potesse ricalcare il debut EP dei Moonspell, quell’“Under the Moonspell” che mi sconvolse qualche lustro indietro l’esistenza, per quel suo forte taglio arabeggiante. Quando è poi “The Temple of Baal Seeth” a svelarsi come vera prima traccia, torno ad assaporare il sound ellenico nelle corde dei nostri, sporcato però da influenze british che ne ammorbidiscono il suono; immaginate un bel mix tra Rotting Christ e ultimi Paradise Lost e potrete capire di che cosa stia parlando. Vorrei quindi indicare gli Ecnephias come maggiori esponenti di una ipotetica scena della Magna Grecia. Sicuramente vi starete chiedendo il perché delle mie parole. Perché le chitarre del combo italico offrono il meglio della band greca, ossia quei riffoni che sembrano più un ingranaggio che va via via sbloccandosi, uniti ad un rifferama più pulito che invece ricalca l’ultimo periodo della band albionica, il tutto sempre contraddistinto dal dualismo vocale di Mancan, bravo a districarsi tra un growling sempre comprensibile (utile anche per farci capire le liriche, tra l’altro estremamente interessanti in quanto legate a mitologia, simbolismo, religione e magia) e delle cleaning vocals corali. “Kukulkan” è un brano ritmato, in realtà molto semplice ma che sa comunque conquistare per la sua melodia di fondo fresca e malinconica, sorretta da quei leggeri tocchi di pianoforte e da aperture che evocano tempi lontani, con un assolo di chiara matrice heavy. Parte di quella robustezza presente in “Inferno” sembra essere scemata per far posto ad atmosfere più soffuse e malinconiche, non fosse altro che le orrorifiche e a tratti incazzate melodie della title track, mi smentiscano immediatamente, spingendomi addirittura ad evocare nella mia tortuosa mente i Necrophagia e per orchestrazioni anche gli ultimi maestosi Septic Flesh. Niente paura perché arriva “Isthar (Al-'Uzza)” e qui il buon Mancan mi guarderà di sottecchi dietro ai suoi baffi: l’inizio della traccia (ma anche il chorus) ha tirato fuori dai cassetti della mia memoria “Desaparecido” dei Litfiba, spingendomi con un balzo temporale di 26 anni indietro; non sto pensando ad una canzone precisa ma a quell’aura dark, sprigionata dalle chitarre e dai vocalizzi, che contraddistinse il debutto della band di Piero Pelù e soci, anche se nel chorus di “Isthar” una rivisitazione di “Istanbul” ci potrebbe anche stare. Certo poi il growling del bravo vocalist permette alla band di prendere le distanze da quel lavoro, anche se al secondo e al terzo ascolto, ho riprovato questa stessa sensazione, focalizzando ulteriormente la mia attenzione su questo brano. Eccoli di nuovo poi gli echi orientali tornare in “Anubis (The Incense of Twilight)”, song contraddistinta da una ritmica sempre molto pulita e armonica con il resto degli strumenti. Semplice e diretta la batteria, essenziali le keyboards, pulite e mai spinte le chitarre, con la voce di Mancan sempre inappuntabile ed inconfondibile, peccato solo non abbia potuto godere di performance in cantato italico. “Kali Ma (The Mother of the Black Face)” è un altro pezzo in cui tornano a manifestarsi gli spettri dei Paradise Lost, forse quelli più ancorati a “Draconian Times”, mentre “Voodoo (Daughter of idols)” penultimo brano del disco e quasi un tributo ai vecchi Iron Maiden, vede la partecipazione in veste di special guest di Sakis dei Rotting Christ alla voce, segno della reciproca stima e amicizia che lega le due band. A chiudere ci pensa la strumentale “Winds of Horus”. Insomma, il restyling degli Ecnephias parte da “Necrogod” e dalla nuova etichetta alle spalle dei nostri, la sempre attenta Aural Music; speriamo solo che sia la rampa di lancio per una più che meritevole carriera degli Ecnephias, contraddistinta da sempre da ottimi lavori, che a mio avviso, non hanno però goduto della giusta attenzione da parte del pubblico. E allora, per rifarsi delle mancanze passate, date una grande chance a “Necrogod”, non ve ne pentirete! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 80

http://www.ecnephias.com/

martedì 26 giugno 2012

Nacthvorst - Silence

#PER CHI AMA: Black/Doom/Sludge, Isis
Emozionante! Difficile dare una simile definizione ad un album black doom, che ammetto non avermi colpito affatto per il suo poco brillante avvio, anzi, devo dire che al primo ascolto, questo “Silence” l’avrei proprio segato. Poi non so come mai, ascolto dopo ascolto, è stata una crescita emotiva, una sublimazione della mia anima che si è integrata alla perfezione con il cupo pessimismo del duo olandese. E quindi, abbandonato quell’incedere burrascoso sludgecore di “The Serpent’s Tongue”, ecco lasciare il posto nella sua seconda metà a commoventi atmosfere autunnali, che ci fanno totalmente dimenticare di avere per le mani un prodotto black, fino ad abbandonarci totalmente alle malinconiche melodie di pianoforte della strumentale “After…”. Straziante. “Nightwinds” irrompe con il suo feeling oscuro e lo screaming efferato di Erghal, ma il rifferama tipicamente estremo, finisce per lasciare ben presto il posto nuovamente ad un vorticoso giro sludge/post che, senza dubbio, si rifà ai mostri sacri del genere. Sono stordito e quando “Gentle Notice of a Final Breath” attacca nel mio stereo, ecco che i fantasmi degli Isis (in versione black, ma solo per le vocals) aleggiano intorno a me. Quanta nostalgia per una band che ci ha lasciati, ma quanta gioia per una nuova che si affaccia, proponendo qualcosa che rievoca in me forti emozioni del passato. L’incedere è ipnotico, le chitarre mai troppo pesanti; l’unica cosa che fa prendere le distanze dalla band di Boston, è solo questa voce un po’ troppo maligna per questo genere, tale da confondere i fan e probabilmente rischiare di dividerli tra chi è sostenitore della causa più “alternative” e chi rimpiange la fiamma nera del black depressive dell’esordio “Stills”. Sinceramente, come al solito me ne fotto e proseguo nel mio ascolto, senza curarmi del passato, delle mode o dei commenti della gente. “Silence” è un album favoloso, intensamente emotivo, brillante, nostalgico e la conclusiva “A Way of Silence”, racchiude nei suoi 15 minuti tutta l’eccellenza che questi due ragazzi provenienti dalla terra dei tulipani, hanno da sfoggiare. Veramente bravi! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 85
 

martedì 15 maggio 2012

Ne Obliviscaris - Portal of I

#PER CHI AMA: Metal, Dream Theater, Dimmu Borgir, Skyclad, My Dying Bride
Spettacolo! Punto. Finito. La mia recensione si chiude qui, con quello che era uno dei lavori che attendevo in assoluto da più tempo… ecco gli australiani Ne Obliviscaris, che mi avevano conquistato nel 2007 con un demo cd di tre magnifici pezzi (contenuti anche in questo full lenght), “The AuroraVeil”. Da allora, ho cercato segnali di vita da parte della band e in effetti qualche contatto epistolare l’ho anche avuto, li ho spronati a firmare per un’etichetta italiana, ma niente da fare non c'era verso, fino alla conclusiva firma per l'Aural Music (che qualche grosso merito me lo dovrà pur dare). Ma veniamo alla notevolissima proposta dei nostri: se superate il primo devastante minuto in cui vi sembrerà di ascoltare un piattissimo disco death black, vi garantisco che non ve ne pentirete perché entrerete nel magnetico mondo targato Ne Obliviscaris. “Tapestry of the Starless Abstract” è la prima perla, che già conoscevo dal precedente demo e che dimostra un tasso tecnico esagerato, un gusto per le melodie assai raro, che si esplica attraverso progressivi pezzi di chitarra, inserti di violino da brivido, parti acustiche e vocals che si alternano tra le harsh di Xenoyr e quelle stupende pulite di Tim Charles. 12 minuti di pura delizia per le mie orecchie che proseguono attraverso le mirabili orchestrazioni della successiva “Xenoflux”, che a livello di ritmiche sa molto di Opeth, con una ritmica ben più tesa e serrata, che non lascia via di scampo. Frustate severe sulla batteria, aggressivi giri di chitarra, stemperati (e neppure poi tanto) da sinistri suoni di violino e dall’ambientale break centrale di chitarre arpeggiate. Ecco, siamo al cospetto di rock psichedelico che va già a porre “Portal of I” tra i miei 2 dischi preferiti di questo sorprendente 2012 (l’altro è quello dei Sunpocrisy). Le sorprese e il piacere derivante dall’ascolto di un cd, non finiscono certo qui: “Of the Leper Butterflies” è un altro bel pezzo tirato in cui continua il dualismo tra il growling e le clean vocals, prima che a mettersi in mostra siano questa volta gli assoli di Benjamin Baret e il basso di Brendan Brown. Mi manca solo di citare il fantasioso drumming di Nelson Barnes e la ritmica possente e nervosa di Matt Klavins, cosi non faccio un torto a nessuno. E andiamo avanti perché un triste violino apre “Forget Not”, altra song del “passato”, altro tuffo al cuore, altra cascata di emozioni che riempiono la mia testa di splendide vibrazioni. Ma come può la musica dare tutto questo piacere, queste tangibili sensazioni, questo senso di smarrimento e di immediato ritrovarsi. La musica penetra il cervello e da li inizia il tutto; e in questa traccia i nostri danno il meglio del meglio della loro proposta che travalica ogni definizione di genere. La musica dei Ne Obliviscaris è totale. Inutile negarlo. Sciocchi quelli che non provano neppure ad avvicinarsi perché spaventati da una parvenza di estremità. Questa è musica che riempie l’anima, musica suonata col cuore, musica che mi rende felice e triste al tempo stesso, musica per cui una volta avrei anche potuto dare 100, il massimo, ma solo il fatto che io mi possa aspettare un lavoro ancor migliore la prossima volta me lo impedisce. Vogliamo parlare della paradisiaca “And Plague Flowers the Kaleidoscope” il cui titolo dice in effetti tutto: un caleidoscopio di colori, aromi che popolano l’aria e suoni che si agitano nell’etere. Non posso farne a meno, questa è la terra promessa e i Ne Obliviscaris il messia che attendevo da molto tempo, da una vita… L’album definitivo, che trova il modo di calare altre due splendide manifestazioni di se stesso, con le rimanenti due spettacolari tracce di un pathos grandioso, che trovano il modo di chiudere una release unica nel suo genere, di grande impatto, forza, melodia, compostezza, intelligenza, aggressività, fierezza e chissà quante altre cose potremo scoprire nell’ascoltare “Portal of I”. Ne Obliviscaris, la via verso il paradiso o la perdizione totale? Per me la via per soddisfare il piacere dell’anima. (Francesco Scarci)

domenica 18 settembre 2011

Ad Inferna - Trance'n'Dance

#PER CHI AMA: EBM, Trance, Industrial
Mi trovo tra le mani una band, francese, che si scosta parecchio dal genere di musica che normalmente ascolto e che allieta le mie giornate: i francesi Ad Inferna infatti, con il loro terzo lavoro, propinano un mix di elettronica, industrial metal, trance e dance: non sarà un'impresa semplice recensirlo, ma vediamo di cominciare. L'album si apre con "Fade to Grey", cantata in inglese e in francese, dal sound che varia dal tranquillo e dolce ad un sound più di stampo industrial, che si avvale anche di cori femminili. "Métamorphose" è meno veloce della traccia precedente, ma tendente più al gothic (perdonate quest'eresia, ovviamente rimango sempre sullo stile trance, non al puro gothic metal) caratterizzato da atmosfere cupe elettronicizzate (a me ricordano tanto il personaggio di Abby nel telefilm “NCIS”, solita ad ascoltare musica di questo genere), che terminano con una semplice sfumatura. "Rédemption" si apre con un ritmo irreale, come se si stesse preparando ad un'esplosione: giusto un pizzico di drum machine, frasi in francese, cori femminili e un sintetizzatore che accelera il ritmo man mano che la traccia prosegue, ma senza diventare martellante, per terminare con una frase ripetuta più volte, in stile mantrico. "SM for SM", la quarta traccia, ricalca le atmosfere e il sound dell'iniziale “Fade to Grey”, con un ritmo però più incalzante. "Suicide Girl" inizia con un connubio di drum machine e keyboards, oltre ad una voce femminile molto suadente: il ritmo rimane tale, senza cambiare di una virgola, per tutta la durata del brano; e come per "Métamorphose", la traccia finisce con una semplice sfumatura. "Transcender l'Estase" riprende il ritmo di "Métamorphose" usando la voce campionata per farla sembrare più inquietante, ma non troppo. "Vertige" rimanda la mente alla pura elettronica anni '80, con un sound molto pacato e quasi impercettibile, per ribaltarsi da metà in poi, aumentando leggermente di velocità e continuando ad avvalersi della eterea voce femminile molto dolce. "You as My Own Drug" mescola un po' tutto quanto ascoltato finora, con un risultato tranquillo e agitato al tempo stesso: l'impronta industrial è sempre presente, sebbene messa spesso in ombra, ma dà un tocco particolare a questo miscuglio di sonorità e generi diversi tra loro, creando un lavoro strano ma piacevole all'ascolto. L'album presenta 4 remix, uno del dj Beborn Beton e del dj Combichrist per la canzone “Vertige”, che si differenziano dal fatto che uno predilige un remix più pulito e semplice, mentre l'altro fa un maggiore utilizzo del sintetizzatore; il dj Soman remixa “Transcender l'Estase” campionando la voce per renderla “stile Gollum” e più vicina al genere House e l'ultima "revisione" è ad opera del dj Reaper nel brano “Rédemption”, di stampo più cupo e cattivo. Sebbene io non sia un'estimatrice di questo genere, né dei remix, concludo dicendo che per una “fuga” dal metal questo album è l'ideale, ma preso a piccole dosi e lontano dai pasti. (Samantha Pigozzo)

(Aural Music)
Voto: 65
 

mercoledì 8 giugno 2011

Lingua - All My Rivals are Imaginary Ghosts

#PER CHI AMA: Post Rock/Indie, Tool, Dredg
Recensire questa band è un po’ come ritrovare dei vecchi amici che non vedevi da tempo, eh si perché grande fu la sorpresa quando nel 2006 ascoltai per la prima volta il disco di debutto di questi svedesoni Lingua, poi diversi passaggi in radio, i primi contatti con la band e infine l’aver contribuito, in un qualche modo, alla firma da parte del combo scandinavo con la nostrana Aural Music. Ed ecco poi finalmente arrivare il nuovo lavoro nelle mie mani. Devo ammettere di averci messo un bel po’ di tempo prima di decidere di recensire “All My Rivals are Imaginary Ghosts”, perché fino all’ultimo mi sono chiesto se il mio contributo potesse essere utile alla causa dei Lingua o se forse sarei stato troppo fazioso nei loro confronti. Chi se ne frega mi sono detto, ho rotto gli indugi ed ecco a parlarvi della seconda release dei nostri, nel modo più obiettivo possibile. E vorrei proprio esordire dicendo che il primo album, mi aveva impressionato molto di più del qui presente, a dimostrazione che le mie parole saranno quanto mai sincere. Sebbene le palesi influenze “tooliane”, “The Smell of a Life That Could Have Been” ci aveva consegnato una band dal suono fresco e originale, con un vocalist dotato di una sorprendente tonalità vocale. Nel nuovo corso, la band scandinava sembra aver ammorbidito il proprio sound, mettendo da parte le reminiscenze post metal che emergevano di tanto in tanto nel debutto e proponendoci uno stile pur sempre riconoscibilissimo, ma un po’ più ruffiano, complice anche il fatto di aver prodotto brani più brevi e diretti. La ritmica iniziale di “Leave us Yours” è arrogante, palpitante nel suo pezzo centrale, con il cantato di Thomas sempre assestato ad alti livelli, e pronto ad annunciare la seconda “It’s a Massacre”, prima vera hit (dal ritornello super canticchiabile), che sembra essere stata concepita da una band indie piuttosto che metal, ma a chi importa. Anche la terza song viaggia su un oscuro binario mid-tempo, che fa dell’eccellente estensione vocale di Thomas il suo punto di forza. Pian piano i nostri vengono fuori e il primo pezzo Lingua style, che ricalca quanto sentito nel precedente lavoro, è sicuramente “It’s There, it’s Life”: si tratta di un bel pezzo ritmato, malinconico, efficace, si mi piace parecchio. Si procede e anche con ampio interesse: un altro esempio di come siano diventati semplici ma estremamente incisivi i Lingua di oggi è offerto da “Prodigal Son”, forse il pezzo più tirato delle 14, con quel suo tocco quasi punk, che emergerà anche nella parte centrale e più incazzata di “Centerpiece”. “I’m Not” riprende ancora una volta i Tool, mescolando il sound della band californiana con un certo dark anni ’90 della scena inglese e il risultato è più che buono. La band di Stoccolma continua a sorprenderci con brillanti trovate: è il caso della tribale “Cobalt Sky” che attacca con una litania che pare estrapolata quasi da un cerimoniale voodoo: ne sono profondamente attratto, ipnotizzato dalla litania reiterante del vocalist e dall’oscura melodia di fondo; un brivido percorre il mio corpo quando Thomas inizia a cantare, e quel basso continua a pulsare nelle mie orecchie, e mi spinge ad ondeggiare paurosamente alla ricerca di quel ritmo frenetico che verrà. Eccola, trovata la mia song preferita di questo avvincente cd. Se “All My Rivals are Imaginary Ghosts” fosse finito qui, credo nessuno si sarebbe offeso, anzi. Le ultime song calano un po’ di tono e finiscono per sembrare semplici riempi pista (salvo tuttavia la conclusiva “Disperse!”) per un cd che ci ha regalato diversi frangenti di ottima musica, ci ha confermato che in Svezia non esiste solo il death metal, che i Lingua sono una band di assoluto valore, carisma e personalità, e che voi avete un obbligo da rispettare: non perderli mai di vista! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 75

giovedì 2 giugno 2011

Addiction Crew - Lethal

#PER CHI AMA: Crossover, Nu Metal
Recensire questo “Lethal” mi mette un po‘ a disagio. Perché è un disco dai molti pregi, che tuttavia mi lascia una grande perplessità. Gli Addiction Crew sono un ensemble italiano e rilasciano questo ellepì a tre anni di distanza dalla loro precedente produzione. Credo che “Lethal” si ispiri al crossover nu-metal dei primi 2000, con qualche contaminazione elettronica (carino l’effetto spada laser di guerre stellare all’inizio di “Target”), ma che poi tutti ruoti intorno al desiderio di fondere questo genere con la voce della cantante Marta Innocenti. Risultato: dodici tracce piacevoli all’ascolto (easy-listening?) dalle sonorità spesso compresse, come se volessero lasciare il posto alla melodica voce della singer. Desiderio di scalare le classifiche con delle canzoni orecchiabili? Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di male. Non mancano le componenti forti, le linee di chitarra violente e una batteria sempre presente e incalzante. Ascoltate con attenzione“ Target”, “Along The Way”, e “Surrounded”, sono le migliori del mazzo. Prese singolarmente, le song sono un’alchimia ben riuscita tra aggressività, pulizia dei suoni, melodia. Nel loro insieme, però, scorrono via come sabbia tra le dita, lasciando una sensazione di vuoto. Mancano quei picchi, quel qualcosa in più che rimane nell’orecchio e nella mente dell’ascoltatore. Il lavoro col bilancino da farmacista per equilibrare il tutto ha creato un qualcosa di sfuggente e vagamente asettico. (Alberto Merlotti)

(Aural music)
Voto 65

martedì 2 novembre 2010

Sicmonic - Somnambulist


Cosa volete che vi dica di una band che ho scoperto io navigando semplicemente sul web e consigliandola al patron dell’Aural Music? Per me sono semplicemente straordinari, tuttavia cercherò di evidenziarvi luci e ombre di questo cd, che, uscito originariamente per la Phoenix Showcase Entertainment ad inizio 2009, la sempre attenta Aural Music rilascia per il mercato europeo, tra l’altro con 4 bonus tracks. L’attacco è affidata a “To the Fiendz”, arrembante song in cui ritroviamo tutti gli elementi cardine che costituiscono il “Sicmonic” sound: ritmiche devastanti ma iper-melodiche, continui cambi di tempo, vocals pulite e growl, sprazzi di follia, per quella che è la mia song preferita. La successiva “Till the Morning Light” mostra il lato più alternative e tribale della band statunitense, con influenze derivanti dagli Ill Nino e dai System of a Down, ma partendo da queste sonorità i nostri espandono il concetto di musica alternativa, costruendo una canzone fenomenale, una sorta di ballad estrema, con la calda voce di Taylor Hession, vero punto di forza del combo di Phoenix, a sbraitare come un pazzo nel microfono; da panico poi le linee di chitarra cosi malinconiche e stracariche di pathos.. Ribadisco, sono geniali e anche la title track conferma queste mie parole pur mostrando un’attitudine un po’ più post hardcore, cosi come la successiva “Illumination”, selvaggia e brutale song dal mood apocalittico, una cavalcata verso le viscere della terra. Solo ascoltando “Somnambulist” potrete capire di che cosa stia parlando e quali emozioni sia in grado di sprigionare questo disco: era da tanto, forse dai tempi di “Toxicity” dei SOAD, che non sentivo qualcosa di così avvincente in questo ambito. Magari ci possono essere cose che faranno storcere il naso ai puristi della musica estrema, tipo le vocals al limite del rap in qualche pezzo, ma vi garantisco che di violenza qui ne troverete più che in un disco brutal death, solo che la cosa splendida è che non si tratta di violenza fine a sé stessa, ma di furia controllata, grazie ad ariose aperture melodiche o all’utilizzo del violino (si avete capito bene, un violino che suona questo genere!) che svolge un ruolo cardine in “Just How Far Down Do You Want to Go?” o nel folle finale affidato a “Devil Went Down to Georgia”. Forse vi verrà il diabete ascoltando “Requiem”, ma dopo l’assalto delle prime tracce, vi garantisco che un attimo di tregua, seppur smelenso, ma dotato di grande tensione emotiva, ci sta tutto, poi la voce di Taylor su quell’arpeggio, che delizia... Giusto il tempo di una boccata d’ossigeno e i nostri tornano a spaccarci le ossa con un’altra serie di songs, magari non tanto brillanti quanto le prime, ma che comunque si dimostrano interessanti, per quel loro connubio tra extreme music e quantità di groove industriali. Per ciò che concerne le bonus tracks si tratta in realtà di 4 brani estrapolati dall’album di debutto dell’act dell’Arizona, “Look to the Skies”, che comunque mostrano il lato più hardcore del five pieces. I Sicmonic sono una vera forza della natura, ricchi di talento e idee brillanti, provare per credere! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
voto: 85