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sabato 22 ottobre 2011

Falloch - Where Distant Spirits Remain

#PER CHI AMA: Shoegaze, Epic, Folk, Alcest, Agalloch
Talvolta scrivere una recensione è la cosa più facile che ci sia al mondo: ci sono band infatti che consentono alle dita di battere sulla tastiera alla velocità della luce ciò che la musica ha da trasmettere. Credo che gli scozzesi Falloch (nome che si rifà alle cascate omonime di Crianlarich) siano una di queste: mi è bastato infatti premere il tasto play e lasciarmi immediatamente conquistare dall’avvolgente musicalità della band di Glasgow e dalla raffinata furiosa delicatezza dei propri suoni. Come al solito, vi avrò disorientato, ma con mio sommo piacere, preferisco non farvi capire nulla per instillare nel vostro animo, la curiosità ad andare avanti nella lettura della recensione. I Falloch sono una band con tutte le carte in regola per sfondare nel mondo della musica metal: miscelando infatti lo shoegaze dei transalpini Alcest con la spiritualità, l’epicità e la furia del sound degli statunitensi Agalloch, il duo, formato da Andy Marshall e Scott Mclean, ha sfoderato una prova eccezionale, tanto da spingermi a definire “Where Distant Spirits Remain”, il mio album del mese. Dall’iniziale “We are Gathering Dust” dove forte è il richiamo agli Alcest, passando attraverso le prove di “Beyond Embers and the Earth” dove invece più marcata è l’influenza della band di Seattle del periodo “The Mantle”, con sfuriate tipicamente black che si alternano a passaggi più onirici o di derivazione “Pink Floydiana“, l’ensemble ci accompagna con somma maestria attraverso un malinconico viaggio nel cuore della tradizione celtica. Ne è testimonianza “Horizons” con quel suo forte flavour folk, neppure fosse uscito dal film “Braveheart”. L’epicità sgorga a tonnellate anche nella successiva “Where We Believe”, la song forse più selvaggia, vuoi anche per l’uso di vocals più aggressive che si contrappongono con quelle estremamente pacate che si ritrovano nel corso di tutto l’album. Mi piace, mi piace e mi piace, non sapete voi quanto: parti acustiche, ambientazioni autunnali, sfuriate black interrotte da break autunnali pregni, stragonfi di malinconia e dolcezza (complice anche la presenza di una voce femminile). Le chitarre affrescano con assoluta semplicità paesaggi molto più vicini a quelli del nord est degli USA o del Canada, piuttosto che ricordare le desolanti colline scozzesi. Colori caldi infatti riscaldano il nostro animo, ascoltando questo esagerato lavoro, che ha preso posto nel mio stereo e non vuole assolutamente abbandonarlo. Non so che altro dire a proposito di un album che si candida ad essere seriamente tra i miei top dell’anno. Magico e poetico! (Francesco Scarci)

(Candlelight Records)
Voto: 90